Storie dalle villas miseria
Dar da mangiare agli affamati, come comanda il Vangelo

I giorni dello stufato

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08 luglio 2021

È il diciottesimo mese di pandemia in Argentina e nelle villas miseria si continua a dare da mangiare agli affamati, come comanda il Vangelo. E per non dimenticare il dettato divino sulla porta delle cucine hanno trascritto in lettere grandi le parole di Cristo ai suoi: «Denles ustedes de comer». Così tutti i giorni a mezzogiorno si distribuisce un piatto caldo da quando è iniziata la quarantena, tanto tempo fa, così tanto oramai che si è perso il conto. Lo preparano degli uomini e delle donne che vivono in questo modo l’isolamento a cui sono tenuti dalle norme sanitarie del governo. Mettono a repentaglio la loro sicurezza, come del resto le persone che vengono a mangiare spinte dalla necessità. Pelano patate, tagliano cipolle, grattugiano sacchi e sacchi di carote tutti i giorni, aprono lattine di conserva di pomodoro, rivoltano sacchetti di carne macinata e impastano farina. In grandi pentoloni di alluminio, su stufe da campo militari, cucinano quello che la Provvidenza fa arrivare nei depositi di alimenti aperti in diversi punti delle villas. Un gruppo prepara le porzioni, altri le consegnano. Alla fine del servizio arrivano quelli che lavano pentoloni e stoviglie e predispongono tutto quel che serve per il pasto del giorno dopo.

Sono uomini e donne che non vogliono ammalarsi, ci tengono alla salute e alla vita, hanno tutti figli, nipoti, nonni che li attendono a casa, e aspettano il cibo che gli porteranno come uccellini nel nido.

Tra loro ci sono muratori, domestiche, donne che prestano servizio in case benestanti dei quartieri vicini, impiegati comunali, qualche lavoratore del settore trasporti, e tanti altri che il lavoro non ce l’hanno e vivono di changas, come gli argentini chiamano quelle occupazioni precarie che aiutano a sbarcare il lunario.

Per tutti il lavoro è sospeso o ridotto al minimo, e dedicano il loro tempo e le loro energie ad alleviare il bisogno degli altri. Senza niente in cambio eccetto un piatto di quella stessa minestra che cucinano per chi viene tutti i giorni a prendere una razione di cibo nel punto convenuto.

I poveri, i bisognosi, quelli che non possono cucinare o non hanno nulla da cucinare; fanno la fila davanti al cancello del Milagro, di Itatì, di San Francesco Solano, della Medaglia Miracolosa e di villa 13 de Julío. E proprio quando i contatti dovrebbero essere più rarefatti e le prossimità diradarsi, le file si stirano come un elastico e i gomiti si avvicinano. I commensali portano con sé ogni sorta di recipienti, tapper, pentole, bidoni, casseruole, scatole di plastica, vaschette del gelato, barattoli che un tempo dovevano contenere qualcos’altro e che in mancanza di meglio servono ad essere riempiti con le razioni di cibo. E mentre se ne vanno con il bottino in mano ancora fumante vengono alla mente le parole del Papa argentino all’inizio del suo pontificato: «Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso»1.

Sono parole che rilette oggi, con una parte del pianeta alle prese con una pandemia ancora inestinta, e che nessuno è in grado di assicurare che non ritorni sotto altre forme, nell’Argentina scossa dalla peste del covid che sembra non finire mai, hanno una aderenza alla realtà che non può non fare impressione.

di Alver Metalli


1 «La Civiltà Cattolica», Quaderno 3918, pagine 449-477, Anno 2013, Vol. iii , 19 settembre 2013. Anche «L’Osservatore Romano», ed. quotidiana, Anno cliii , n. 216, Sabato 21/09/2013.