Thomas More/2

Testimone della verità

«Il primo incontro fra Enrico VIII e Anna Bolena» (1835)
07 luglio 2021

Proseguiamo nella pubblicazione (iniziata ieri con un saggio di Rocco Buttiglione) di stralci di testi tratti dalla raccolta miscellanea «Il primato della coscienza. Omaggio a St Thomas More nel decimo anniversario della proclamazione a patrono dei governanti e dei politici» (Rubbettino, 2010). Una personalità talmente ricca e poliedrica, quella del consigliere di Enrico VIII, da rendere necessarie due puntate di «Oggi in primo piano»

Gli nglesi hanno sempre avuto nei confronti di Thomas More una profonda ammirazione, non diversa da quella nutrita dallo stesso Enrico viii verso colui che egli riteneva one of the most virtuous men in his dominions, e più in generale dall’opinione pubblica europea del tempo, che lo apprezzava — ha scritto uno storico illustre — come the foremost Englishman of his time. Gli inglesi, però, non sono mai riusciti a comprendere fino in fondo le vere ragioni del martirio (perché proprio di questo si trattò) cui egli accettò di essere sottoposto e che ha indotto la Chiesa cattolica — dopo moltissimi anni, peraltro — ad annoverarlo tra i suoi santi. L’opinione prevalente nella storiografìa anglosassone è che la morte di More non sia dipesa da ragioni di fede, quanto dal carattere estremamente crudele e narcisistico del suo re, a most intolerable ruffian, a disgrace to human nature and a bloy of blood andgrease upon the history of England (così Charles Dickens nel suo ammirevole A Child’s History of England, un testo letto da generazioni di adolescenti britannici e ancor oggi di gradevolissimo approccio).

La tesi ha una sua plausibilità, perché indubbiamente nella storia pochi personaggi appaiono più disgustosi di Enrico viii , ma non coglie l’essenza della questione, che va ben al di là delle contingenze caratteriali di coloro che ne furono i protagonisti.

Il tragico conflitto tra Enrico viii e Thomas More non ebbe per oggetto, come molti hanno creduto e continuano a credere, la pretesa del re di porre termine con un divorzio alle sue nozze con Caterina d’Aragona, così da potersi poi liberamente risposare con Anna Bolena: Enrico viii , defensor fidei, era convinto quanto il papa dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale (così come del resto hanno continuato a esserne convinti tutti i suoi successori).

La richiesta che egli sperava che Roma arrivasse a soddisfare non era quella di un divorzio, bensì quella del riconoscimento dell’invalidità della dispensa che Enrico aveva ottenuto a suo tempo dal papa per poter legittimamente sposare colei che era stata sua cognata, superando in tal modo gli interdetti canonici.

Caterina d’Aragona, infatti, era stata in precedenza moglie di Arturo, il fratello maggiore di Enrico, precocemente defunto prima di aver consumato il matrimonio.

Se la dispensa fosse stata ritenuta invalida da Roma, Enrico avrebbe potuto far riconoscere nulle le sue consumatissime nozze con Caterina, da cui non erano nati eredi maschi al trono, riconquistando così la possibilità di convolare a nuove nozze con Anna. Ecco perché non fu il divorzio (o, se si vuole, il principio dell’indissolubilità del matrimonio) a creare la tragica frattura tra il re e More.

Non fu nemmeno, propriamente, tema di conflitto tra i due l’Act of Succession, attraverso il quale Enrico fece riconoscere come legittimi eredi al trono i figli generati a seguito del suo rapporto con Anna. More correttamente, da quel grande giurista che era, riteneva che la successione al trono di Inghilterra fosse questione non teologico-religiosa, ma giuridico-politica, e che appartenesse ai poteri esclusivi del Parlamento inglese, su sollecitazione del re, regolare una simile questione, senza alcuna possibilità di intromissione ecclesiastica. Il conflitto nacque quando Enrico, persa definitivamente la speranza che il Papa arrivasse a dichiarare nulla la dispensa che gli aveva a suo tempo consentito di sposare Caterina, decise che tale nullità poteva essere validamente dichiarata dal clero inglese e ratificata non dal papa, ma direttamente dal sovrano, in quanto riconosciuto capo della Chiesa d’Inghilterra. Enrico volle che tale riconoscimento fosse inserito nel preambolo dell’Act of Succession (che, ripeto, More non aveva alcuna difficoltà a sottoscrivere), e pretese di verificare la lealtà dei suoi sudditi, vincolandoli con un giuramento, un Oath of Succession. Fu solo a questo punto che More fu irremovibile, anche se — come è noto — egli si rifiutò di esplicitare le ragioni del suo rifiuto di giurare: egli, infatti, negò sempre che il suo mancato giuramento equivalesse a un misconoscere il potere sovrano del re, ai suoi occhi perfettamente legittimo.

Egli semplicemente dichiarò di non poter giurare la sua fedeltà al re, usando le espressioni della formula contenuta nel preambolo dell’Act of Supremacy.(...) Fu esattamente questa — il rifiuto di giurare — la ragione della sua condanna? Propriamente no; tale rifiuto, se il re fosse stato altri che non Enrico, avrebbe potuto semplicemente costargli, oltre al favore del sovrano, la perdita del patrimonio, del rango sociale, di ogni carica politica, ma non necessariamente quella della vita.

Al patibolo More giunse solo perché Thomas Cromwell (l’anima nera di Enrico viii , secondo la migliore storiografia, tutta a lui avversa) solleticò il narcisismo del re e lo indusse a ritenere che il mancato giuramento all’Act of Succession (col suo essenziale Preambolo) concretizzasse a carico di More il reato estremo, quello di fellonia, cioè di alto tradimento.

E per l’alto tradimento la pena, come sappiamo, non poteva essere che la scure. More fu, quindi, decapitato non tanto per la sua fedeltà a Roma, quanto per una mancata, esplicita, formale espressione di fedeltà al suo sovrano. Se non fosse stato cancelliere del regno, se non avesse goduto della fama universale di cui godeva, se, insomma, fosse stato un privato cittadino e non Thomas More, colui che Erasmo aveva onorato della sua amicizia e che il decano di Greenwich, John Colet, aveva una volta definito the one genius of the Kingdom, egli non avrebbe corso alcun rischio particolare, perché non gli sarebbe stato rivolta alcuna richiesta di formale giuramento. Continua, pertanto, a essere l’opinione di molti quella per la quale la questione si sarebbe potuta “aggiustare”, se le pretese del re fossero state meno narcisistiche e se la posizione di More fosse stata più duttile, secondo le speranze nutrite fin dall’inizio della tormentosa vicenda non solo dai suoi amici, ma anche dai suoi familiari e in particolare dalla moglie e dalla figlia.

Tutti costoro si erano rassegnati a giurare, ritenendo che l’Act of Supremacy avesse propriamente per oggetto non un principio di fede, ma una questione ecclesiastica, sostanziandosi essenzialmente in un’actio fìnium regundorum tra le competenze del re e quelle del papa.

Un’ opinione condivisa ancora, nel secolo successivo, da John Locke, che escludeva che in Inghilterra i cattolici potessero essere tollerati, ritenendo il rapporto di costoro con Roma un’inaccettabile forma di subordinazione politica al papa da parte di sudditi del re d’Inghilterra.

Se la causa del conflitto la si fosse potuta davvero ridurre a un braccio di ferro tra Enrico viii e Clemente vii , la questione sarebbe stata comunque molto rilevante, ma non avrebbe avuto un carattere molto diverso dai conflitti tra il papa e l’imperatore sorti all’epoca della lotta per le investiture.

More stesso si rese conto che realmente la questione poteva essere inquadrata in tali termini e questo spiega perché egli abbia manifestato in più di un’occasione un’inaspettata indulgenza nei confronti di chi avesse prestato giuramento sull’Act of Succession.

Da parte sua, però, non riteneva di poter condividere una simile interpretazione, ben sapendo, peraltro, che se l’avesse condivisa avrebbe potuto salvarsi la vita.

di Francesco D’Agostino