Rileggendo la storia della pandemia di influenza spagnola

La spoon river
delle suore americane

 La spoon river delle suore americane  QUO-151
07 luglio 2021

L’impegno  nell’assistenza ai malati di covid-19 ha richiamato nei media statunitensi la similitudine con l’eroica testimonianza di un grande numero di consacrate nello scenario apocalittico di cento anni fa


Dall’inizio della pandemia la pubblicistica ha proposto similitudini e parallelismi tra la cosiddetta influenza spagnola e il covid-19. Gli editori non si son fatti trovare impreparati, recuperando quei titoli che nel 2018 — al centenario dell’esplosione dell’epidemia — erano usciti in sordina. In particolare La spagnola di Richard Collier, ormai un classico della storiografia, e il saggio 1918: la pandemia che cambiò il mondo della divulgatrice scientifica Laura Spinney. Tra aneddoti storici misti a dati scientifici, morti illustri (come Apollinaire) e celebri guarigioni (cosa sarebbe stato il ‘900 senza Disney?) spiccano situazioni non molto diverse da quelle dell’emergenza che ci è toccato vivere cent’anni dopo. Pare incredibile che uno degli eventi più devastanti della storia umana fosse rimosso dalla memoria collettiva. Forse perché, come dice Laura Spinney, la Storia vuole raccontare di vincitori mentre «le pandemie lasciano soltanto dei vinti».

A contraddire la logica della storia ufficiale è la vicenda, finora sconosciuta, delle suore di Philadelphia durante la prima ondata di spagnola, portata alla ribalta lo scorso anno da una giovane scrittrice, Kiley Bense, sulle colonne del «New York Times» con un articolo intitolato Dovremmo essere tutti più simili alle suore del 1918 (We should all be more like the Nuns of 1918). Alcuni anni fa, alla ricerca di spunti per un possibile libro sull’infanzia di sua nonna a Philadelphia, Kiley Bense si trovò tra le mani Il lavoro delle suore durante l’epidemia di influenza, ottobre 1918 un libretto pubblicato dall’American Catholic Historical Society nel 1919, e rimase colpita dalla generosità di sé di queste suore. Philadelphia fu la città americana dove esplose la spagnola, con una media giornaliera di 700 morti. I corpi venivano ammassati nelle strade, mentre gli ospedali traboccavano di malati, rimasti senza assistenza infermieristica. Si improvvisarono strutture mediche di emergenza nelle scuole e nelle chiese. In uno scenario apocalittico, l’arcivescovo autorizzò le suore ad uscire dai loro conventi: per la prima volta 2.200 religiose di varie congregazioni ebbero il permesso di salire sui mezzi pubblici e restar fuori anche la notte, per assistere malati e morenti. Kiley Bense suggerisce che l’altruismo «silenzioso e determinato» di queste donne che agirono senza risparmiarsi, talvolta a costo della vita, sia ciò di cui abbiamo bisogno nel tempo dell’attuale pandemia.

Se sfogliamo anche noi questo libretto apparentemente austero — reperibile in rete — scopriamo un esempio unico di storia orale che ci immerge in una realtà allucinante. Autore è l’agostiniano Francis Tourscher padre spirituale in diversi conventi di Philadelphia che, turbato dall’eccezionalità degli eventi, iniziò a raccogliere le testimonianze di prima mano dalle suore sopravvissute al morbo. Non c’è nessun eroismo né alcun protagonismo, perché le suore restano anonime. Soltanto nella sezione finale vengono riportati i nomi di quelle religiose che hanno perso la vita e a ciascuna è dedicata una biografia poco più lunga di una riga. Ne leggiamo una a caso: «Suor Mary Carina, già Miss Mary Mott, che ha svolto un lavoro splendido tra i malati di influenza della parrocchia di San Giuseppe, nella cui scuola insegnava dal 1910. È morta il 6 novembre 1918». Si tratta di giovani donne, con un’età oscillante tra i 22 e i 40 anni, senza alcuna esperienza del mondo esterno e nessuna formazione medica, anche perché perlopiù erano insegnanti. Le sopravvissute raccontano di pazienti in preda ad allucinazioni che cercavano di scappare dai ricoveri, strappavano le lenzuola, lanciavano bicchieri, urlavano e imploravano pietà. «All’inizio ero sconvolta dalla paura — racconta una suora del suo ingresso in ospedale — non ero mai stata in contatto con la morte. Ero assegnata al reparto donne, mi son resa conto di cosa andava fatto e ho indossato la veste, la mascherina e ho iniziato».

I malati chiedono loro soprattutto di riferire un ultimo messaggio ai loro familiari, ed è a questo punto che le suore, a due a due, in abiti bianchi e mascherine di garza, iniziano a bussare alle abitazioni private per offrire conforto. Attraverso i loro itinerari si può ricostruire uno spaccato sociale della Philadelphia dei primi del ‘900: immigrati dall’Italia, dall’Ucraina, dalla Polonia e dalla Cina; famiglie di colore, famiglie ebree e i più poveri della città, orfani, senzatetto e indigenti, tutti bisognosi di cure. Le suore cominciano portando cibo e medicine e finiscono per compiere gesti di disarmante quotidianità, come cucinare, lavare, fare le pulizie domestiche. Una suora ricorda di quando, in un seminterrato umido, trovano una famiglia che non mangia da giorni e, mentre lei prepara un pasto, la sua consorella si ritrova con un compito del tutto nuovo per lei: fare il bagnetto ad un bambino. Un’altra racconta di una donna anziana rimasta completamente sola che, con un toccante gesto di civetteria, si liscia i capelli arruffati con le mani e le chiede di pettinarla. È da incontri come questi che le suore si rendono conto che «la vera miseria è l’isolamento, la solitudine».

È significativo che nel 2020 — mentre globalmente si affrontava la pandemia, tra paura e vulnerabilità — il «New York Times», forse tra i giornali più laici al mondo, abbia indicato le suore di Philadelphia come prova dell’enorme capacità umana di sacrificio personale in nome del bene comune: «Cento anni dopo, in questo tempo insolito che ci spinge ad allontanarci da quelli prossimi a noi invece di cercare dei modi per sostenerli, l’impegno delle suore ci fornisce un modello da seguire e a cui tendere, per riconoscere sia le nostre paure che per trovare coraggio nella forza delle nostre comunità». L’articolo di Kiley Bense, tra retweet e condivisioni sul web, ha provocato una reazione a catena per cui conventi e parrocchie hanno aperto i propri archivi e riversato sulla rete una miriade impressionante di documenti sull’azione di altre suore americane durante l’epidemia del 1918. Da una parte all’altra degli Stati Uniti fino al Canada spuntano documenti ufficiali e memoriali, trascrizioni di altre testimonianze e ritagli dai giornali d’epoca, che raccontano l’impegno sovrumano di tantissime suore, persone vere che hanno unito la propria vocazione al loro essere profondamente donne.

di Antonio Farisi