LE PETIT TOUR
Mistica del ciclismo

L’ascesa al Monte Ventoso

 L’ascesa  al Monte Ventoso  QUO-151
07 luglio 2021

Dalla cima del Monte Ventoso, a più di milleottocento metri sul livello del mare, si vedono i Monti della provincia di Lione e il mare di Marsiglia. La natura circostante non è particolarmente colorata ed è piuttosto brulla: le poche forme di vita resistenti al vento che soffia a centocinquanta chilometri all’ora sono più tenaci che appariscenti. Il cielo sopra è quasi sempre terso.

Per una notevole coincidenza il nome del Monte Ventoso è familiare tanto ai letterati quanto agli sportivi: ai primi per il nome di un testo cardine della poetica petrarchesca, ai secondi per le incredibili imprese che hanno compiuto sulle curve di questa salita i corridori di decine di edizioni del Tour de France. E col tempo si è trovato spazio anche per la spiritualità, ma andiamo con ordine.

A raggiungere per primo la cima del monte non è stato un esploratore, e neppure un atleta. La prima salita al Monte Ventoso di cui abbiamo un’attestazione rimane proprio quella di Francesco Petrarca; il poeta aretino ci ha lasciato infatti un lungo resoconto in cui racconta l’eroica ascesa, compiuta in compagnia del fratello Gherardo, monaco.

La lettera, scritta in latino e indirizzata a un monaco agostiniano, Dionigi da San Sepolcro, sovrappone spesso i piani del racconto e quello di un’allegoria dell’ascesa spirituale del poeta. A fungere da bussola ideale per il nostro sono proprio le Confessioni agostiniane, un fardello apparentemente poco pratico in una scalata ma necessario invece per guidare la ricerca intima del poeta: i commentatori che hanno tradotto e interpretato il testo della missiva sono piuttosto concordi nell’attribuire un forte significato simbolico all’impresa.

Se Gherardo, votatosi alla vita religiosa fin dalla gioventù, riusciva agilmente nella salita, il fratello maggiore invece è gravato da una serie di impedimenti che altro non sono che allegorie per peccati e tentazioni mondane. «La mole del monte, infatti, tutta sassi, [era] assai scosces[o] e quasi inaccessibile», o almeno così la descriveva la prosa petrarchesca, e a guardare le immagini che oggi offrono i moderni mezzi sembra che le cose non siano cambiate di molto: certo, c’è una lingua d’asfalto che costeggia tutto il crinale della montagna, e qualche sentiero scavato dagli esploratori che nel corso dei secoli hanno emulato più o meno consapevolmente l’impresa dei fratelli Petrarca.

Nel corso del tempo si sono aggiunti pochi dettagli, tra cui una piccola cappella del quindicesimo secolo dedicata alla venerazione della “Vera croce”, ovvero un luogo dove sarebbero custoditi alcuni dei frammenti della croce di Nostro Signore. Ai piedi della montagna ce n’è un’altra precedente, di epoca romanica, che pur non custodendo reliquie segna l’inizio del vero e proprio supplizio dei corridori.

Il Ventoux infatti è un incontro ricorrente per i corridori che affrontano la Grand Boucle. A questa scalata è inscindibilmente legata la memoria degli attacchi di Pantani, di Charly Gaul e Merckx eternati dalle trasmissioni televisive della corsa che hanno tenuto incollati allo schermo generazioni di appassionati, ma anche gesti di altruismo e imprese atipiche come quelle di Michele Scarponi. Quest’anno il Monte verrà affrontato ben due volte nel corso di una stessa tappa, quella del 7 luglio, prendendola prima dal versante “duro”, lungo “solo” 16 chilometri ma con pendenze decisamente arcigne, e poi quello morbido, in cui però i 22 chilometri di lunghezza bilanciano il dislivello apparentemente più morbido. Si usa dire che i ciclisti durante una gara sono talmente concentrati nello sforzo da non riuscire neppure a guardarsi intorno e apprezzare dei panorami mozzafiato che il loro sport offre; chissà se uno di loro godrà dello “spettacolo grandioso” che si era palesato già agli occhi di Petrarca e dell’aria insolitamente fresca della cima, prima di lanciarsi a capofitto nell’ultima discesa fino al traguardo di Malaucene, proprio lo stesso paesino da cui l’impresa del Poeta era cominciata.

di Filippo Simonelli