A Cesare quel che è suo

Hans Holbein  il Giovane, «Enrico viii» (1540)
07 luglio 2021

Nella sua vita pubblica, Thomas More è stato un leale servitore dello Stato. Alla considerazione di cui godeva — quella che fece dire a Erasmo, nella sua ben nota lettera a Ulrico von Hutten, che Thomae Mori ingenio quid umquam fìnxit natura vel mollius vel dulcius vel felicius — contribuiva non poco la sua straordinaria versatilità, che lo aveva portato a eccellere in tutti i campi nei quali si era inoltrato, basti richiamare l’influenza di Utopia sul pensiero successivo e il suo carteggio con Erasmo.

A tali qualità aveva fatto riscontro una popolarità straordinaria non solo presso la classe dirigente europea dell’epoca, ma anche presso i diseredati. Ne rende testimonianza William Shakespeare, nel terzo atto del suo Enrico VIII.

«Possano le sue ossa, quando avrà concluso il suo corso e dormirà nella grazia, avere per tomba le lacrime degli orfani versate su di esse».

Nella sua variegata esperienza, riveste particolare rilievo non solo la sua attività di umanista e scrittore, nel campo culturale, ma quella che svolse in campo professionale, e in particolare il suo servizio allo Stato, non solo come avvocato e giudice, ma anche consigliere, ambasciatore, parlamentare, uomo di governo.

In effetti, More svolse in più occasioni il ruolo di consigliere, dall’esperienza formativa di sottosceriffo di Londra, cioè consigliere legale (nel 1510), fino a quella apicale di consigliere di Enrico viii Tudor, che nel 1518 lo chiamò a far parte del Consiglio privato della corona. In questa veste, More fu particolarmente apprezzato e rispettato, tanto che, per le doti personali e professionali dimostrate, fu successivamente chiamato a ricoprire incarichi sempre più delicati e importanti, assumendosi la titolarità delle primarie funzioni pubbliche alle quali aveva cooperato.

In qualità di ambasciatore — come ricorda William Roper, il suo genero e biografo (peraltro l’unico presente ai fatti) — fu inviato nelle Fiandre nel 1515, a Calais nel 1517, ancora due volte nel 1521 per negoziare la pace con Carlo v e nel 1527 per ratificare la pace con la Francia, e soprattutto fu uno degli artefici della pace di Cambrai del 1529. Nella sua veste di parlamentare, divenne presidente della Camera dei Comuni, il 15 aprile 1523. Da uomo di governo, fu lord cancelliere, cioè premier, primo laico a raggiungere il cancellierato, dal 25 ottobre 1529 al 16 maggio 1532.

Nell’approssimata articolazione dei poteri del suo tempo, in regime di monarchia assoluta e per di più in presenza di un sovrano come Enrico viii , l’esercizio di funzioni pubbliche si traduceva necessariamente in un rapporto diretto con la corona.

Ebbene, in tutte queste esperienze di servizio pubblico, pur così differenti fra loro, More portò i tratti distintivi della sua personalità, e continuò a essere fedele agli stessi principi che aveva declinato da consigliere, in particolar modo la sua coerenza nel tutelare rigorosamente, nel rispetto dell’ordinamento vigente, il primato della coscienza.

Così facendo, egli ha incarnato per molti versi il modello del consigliere del potere pubblico, del civil servant; un’alternativa, tanto credibile e radicale quanto scomoda, al consigliere del principe vagheggiato dalla deriva machiavelliana pressappoco coeva, quella che Francesco Bacone definì «la parte più debole della politica e della prudenza».

Uno degli aspetti più rilevanti del suo servizio pubblico è stata la lealtà.

More è stato un consigliere leale. Anzi, la lealtà è stata la chiave di tutta la sua azione pubblica.

Ma non si tratta di un dato meramente psicologico o comportamentale. Si tratta di una lealtà sostanziale, che si potrebbe definire istituzionale, mantenuta anche nelle fasi determinanti del processo.

La vicenda è nota. Enrico viii non ottenne dal papa il riconoscimento dell’invalidità della dispensa che tempo addietro gli aveva consentito di sposare Caterina d’Aragona, la moglie di suo fratello Arturo, erede al trono morto senza lasciare eredi e senza consumare il matrimonio.

La dispensa gli avrebbe consentito di convolare a nozze con Anna Bolena, e di assicurare al regno una discendenza. Per queste ragioni, piegò ai suoi voleri il clero e il Parlamento inglese e richiese a tutti i suoi sudditi di accettare la supremazia del re sulla Chiesa.

In questo conflitto, More si mantenne leale al re e alla Chiesa, ciascuno nel proprio ordine.

Rimase leale al re. Non mise in discussione la volontà del sovrano, sancita nell’Act of Succession, di assicurare la corona inglese alla discendenza da lui avuta con Anna. La successione dinastica era, infatti, un problema politico, non religioso, e quindi More riteneva che spettasse al Parlamento risolverlo, non alla Chiesa. Una lealtà proclamata fino alla fine. Perfino nel porgere il collo alla scure, il 6 luglio 1535, dichiarò di voler morire «suddito fedele del re, ma innanzi tutto di Dio».

Rimase leale al papa. Non accettò mai la scelta del re di trasferire al clero inglese il potere di dichiarare la nullità della dispensa che aveva consentito la celebrazione del suo matrimonio con Caterina, e di avocare a sé, in quanto capo della Chiesa d’Inghilterra, il potere di ratificare quella decisione. «Come può un re, un laico, essere capo della Chiesa?», si chiedeva riecheggiando l’obiezione del priore Houghton a Cromwell. Riteneva, infatti, che la giurisdizione sul matrimonio dovesse continuare a essere solo quella ecclesiastica. L’alternativa era un nuovo scisma, dopo quello luterano, l’ulteriore compromissione dell’unità religiosa della cristianità.

More, in sostanza, intendeva riconoscere a Cesare il tributo che spettava a Cesare, senza tuttavia rinunciare a dare a Dio ciò che apparteneva a Dio.

Una convinzione così profonda si traduceva e traspariva nella coerenza della sua condotta. More non è mai stato uno yesman. Non ha mai tentato di compiacere il potere per trarne beneficio quando era in auge, e neppure per salvarsi la vita quando si trovò in disgrazia. Offrire al re un parere secondo coscienza significava per lui consentirgli una decisione realmente consapevole, non limitata all’orizzonte dei suoi desideri, più o meno espressi, più o meno velati.

Ai suoi tempi, questo comportamento richiedeva una coerenza non indifferente. Di fronte a un sovrano dispotico e caratteriale come Enrico, inoltre, una simile coerenza poteva essere scambiata per orgoglio, come ritennero persino alcuni dei suoi familiari, o per alto tradimento, come in effetti avvenne. Al contrario, costituiva in effetti l’espressione più profonda del suo rispetto nei confronti del monarca, del ruolo e delle prerogative di quest’ultimo, lo strumento estremo per riportarlo a confronto con l’interesse generale, per non abbandonarlo al delirio di onnipotenza.

Ma occorre cogliere un altro aspetto, tutt’altro che secondario. Con la sua condotta, infatti, More rivelava un rispetto profondo della distinzione di ruoli tra il consigliere, cui spetta la prospettazione delle possibili soluzioni ai problemi e del rapporto costi-benefìci che le soluzioni comportano, e il decisore, al quale soltanto compete la responsabilità della scelta.

Rispetto delle proprie competenze, dunque, ma anche delle competenze altrui.

Una distinzione di ruoli, in lui così nitida perché vissuta come eticamente necessaria, che nella realtà quotidiana, allora come oggi, viene ricorrentemente vanificata dalla condiscendenza o dall’adulazione, che in fin dei conti, in cambio di potere riflesso o benefici materiali, lasciano il potere in balìa dei suoi stessi limiti.

Enrico viii incarna fino in fondo questa cupidigia del potere e usa tutti gli strumenti per piegare o anestetizzare la coscienza del suo consigliere, non solo con le minacce ma anzi, finché pensa di poterci riuscire, con le blandizie.

Ne diventa amico, ne frequenta la casa, ostenta nei suoi confronti altissima considerazione.

Crede che More ne resterà irretito.

Al contrario, More ne è assolutamente consapevole, sa bene che il sovrano cerca di volgere a suo favore il credito di cui egli gode in Inghilterra e all’estero. Ne fa fede la icastica battuta che rivolge proprio a Roper:

«Io trovo Sua Maestà veramente un ottimo padrone verso di me (...) Ciò nonostante (...) non ho nessuna ragione di esserne orgoglioso, poiché, se la mia testa gli potesse far conquistare un castello in Francia, la perderei senza fallo.

Sembra quasi un presagio.

di Antonio Casu