La riflessione
L’abisso ha un limite

Le acque fanno posto
a una chiamata

Edward Hopper «Little Boy Looking at the Sea» (1891)
06 luglio 2021

Prima che noi fossimo, «Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona» quella distinzione per cui il mare sta, immenso, davanti a noi (Genesi 1, 10). Il racconto biblico canta una preparazione della bontà e della bellezza dei luoghi della vita: affrontando il caos, la Parola argina e chiama. In particolare: «Come in un otre raccoglie le acque del mare, chiude in riserve gli abissi» (Salmo 33, 7). Dalla fede di Israele assume così una sfumatura particolare la nostra possibilità di vivere di fronte al mare o di ammirarlo in giorni di viaggio e di riposo: l’abisso ha un limite, ciò che sembra definire l’intero orizzonte ha dei contorni e ci fa spazio.

Dio raccoglie, chiude, chiama la massa delle acque e allora c’è posto per me e per tutto ciò che amo. Un rapporto redento con la vita è intriso, nella sapienza biblica, di questa meraviglia originaria. Condizioni favorevoli, al netto di tutti i pericoli, circondano ogni nascita: le acque fanno posto a un giardino, non a una selva oscura o a un deserto spaventoso. Oggi, per quanto ferita dalla rapacità umana, nel travaglio e fra i gemiti la casa comune è ospitale e persino l’abisso, non più spaventoso, ne è divenuto parte: «Ecco il mare spazioso e vasto: là rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi» (Salmo 104, 5).

«Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta». Il cantico delle creature non evoca le tempeste, i flutti, le minacce che inquietano la preghiera biblica. Sorge, tuttavia, dalla notte oscura di Francesco, così vicina al naufragio di Giobbe. La perfetta letizia, infatti, è un frutto dello Spirito e matura nel tempo, senza rimozioni: fa i conti con la realtà. Davanti al mare, ad esempio, il realismo di Giovanni Verga ha raccontato destini amari, lontani dalla leggerezza vacanziera: «Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, “gente di mare”, dicono essi, come altri direbbe “gente di toga”, i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano — quando ne mangiano — giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo».

La miseria appare qui nel suo potere mortificante, tra strilli e graffi di bambini privati della pace, irrequieti, strappati a un giusto rapporto con la vita da un ordine sociale iniquo. Un destino di emarginazione, di diseguaglianza, di lotta impari sembra per loro già scritto. Rompere il cerchio, interrompere il disincanto, opporre il realismo della grazia a quello della resa — «non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (Qoelet 1, 9) — è il nocciolo del dinamismo biblico.

Il Dio di Israele riapre il tempo, ridisegna i destini, ascolta il grido, interviene e libera.

I giorni neri in Egitto hanno un termine e un popolo di schiavi è condotto davanti al mare, per fare la decisiva esperienza di una nuova creazione. «Gli egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare» (Esodo 14, 9). La presa di posizione di Dio, che dice basta alla schiavitù e scavalca l’autorità del faraone, inaugura al Mar Rosso una diversa capacità di giudizio, una qualità nuova di realismo in chiunque sia testimone, complice, vittima di ingiustizia. Si ferma davanti al mare, anche oggi, un esodo di umani che non ne ammirano le acque: temono piuttosto di esserne sommersi, si chiedono come navigarle per lasciarsi alle spalle la morte. Dio non può essere più solo a prosciugare il mare: non ha mai voluto essere solo a salvare. Ha chiamato, provato e sostenuto Mosè, superando le sue remore, la sua balbuzie, i suoi fantasmi e trasformando in segno la stessa debolezza: «Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto» (Esodo 14, 16). E di nuovo il mare si ritrasse, perché il mondo prende forma in un’alleanza impari, fedele, vertiginosa, di cui siamo originariamente beneficiari, per poi diventarne protagonisti e costruttori. Per questo, davanti al mare, noi non si sta più come prima: a cambiare il corso del tempo e la qualità dello sguardo è il memoriale della liberazione, il tempo festivo in cui l’esodo ci ha introdotti.

Vacanza etimologicamente evoca un vuoto, un interiore vacillare che può trovare diverse risposte. Quella della festa non è l’unica gioia che non si impone, preferendo raggiungerci nella delicatezza dell’intimità e del silenzio o nel ritmo sobrio del tempo liturgico. All’opposto, per definizione, l’industria del divertimento distrae: persino davanti al mare “volge altrove”, distoglie dall’infinito. Nell’eccitazione disinnesca le emozioni, consumandole in un’economia dell’indifferenza. «Come la sabbia sulla spiaggia del mare» ( 1 Re 5, 9) è invece la sapienza di chi mantiene lo sguardo sull’orizzonte. Come chiede Elia, che insiste affinché il suo servo guardi verso il mare. «Quegli salì, guardò e disse: “Non c’è nulla!” Elia disse: “Tornaci ancora per sette volte”. La settima volta riferì: “Ecco, una nuvola, piccola come una mano d’uomo, sale dal mare”. Elia gli disse: “Va’ a dire ad Acab: Attacca i cavalli e scendi, perché non ti trattenga la pioggia!”» ( 1 Re 18, 43-44).

È la fine della carestia, l’inizio di un tempo nuovo, ulteriore possibilità di divenire popolo nel diritto e nella giustizia. Facendo sedere le folle sulla riva e distanziandosi di qualche metro, sulla barca di Pietro, Gesù pare chiedere anche a noi di guardare nuovamente il mare.

Il suo insegnamento è diretto e rallegra, il suo comandamento è denso di autorità e libera: «Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?» (Deuteronomio 30, 13). Quella evangelica è definitivamente una parola vicina e toglie all’immobilità ogni alibi: c’è chi prende il largo, chi si butta in mare, chi sulle acque impara a camminare.

C’è anche chi resta dov’è. Eugenio Montale, dando voce allo smarrimento di molta umanità, intitola Antico, sono ubriacato dalla voce una poesia in cui così canta la sua contemplazione del Mediterraneo: «Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro». Oggi più che mai è invece come se il nostro stesso respiro, insieme a quello di tutta la creazione, dipendesse dal coraggio di sederci e guardare il mare, ricevendone l’ammonimento che tutto riapre. Persino il melanconico Verga riconosce: «Soltanto il Mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il Mare non ha paese nemmeno Lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare di qua e di là dove nasce e muore il sole».

di Sergio Massironi