Giurista, ma anche santo «della porta accanto»

La grandezza del quotidiano

W.F. Yeames «L’incontro  di Thomas More con la figlia» (1872 particolare)
06 luglio 2021

Pubblichiamo uno stralcio del Thomas More, il politico e il santo, uno dei testi presenti nella libro miscellaneo Il primato della coscienza. Omaggio a St Thomas More nel decimo anniversario della proclamazione a patrono dei governanti e dei politici (Rubbettino, 2010)

Ci sono santi che noi ammiriamo, ma non vorremmo essere come loro. Piuttosto, forse, per essere come loro non sapremmo neppure da che parte cominciare. Troppo diversi da noi sono come quei massi erratici che vediamo a volte nelle valli alpine, fuori di ogni proporzione con il contesto attorno a loro. Così questi santi ci ricordano la grandezza incommensurabile di Dio e, insieme, la insondabile profondità dell’anima umana. Nietzsche, se fosse cristiano, direbbe che essi esprimono la dimensione del dionisiaco all’in- terno della storia della santità.

Thomas More non è un santo così. È familiare e umano. La sua grandezza è la grandezza del quotidiano. È stato prima di tutto un bravo padre e un bravo marito, ha amato e protetto la sua famiglia, ha confortato sua moglie ed educato i suoi figli con tenerezza e con costanza. Ha anche amato il suo lavoro di giurista, di filosofo e di politico. Una volta ha scritto: «Trovare il lavoro giusto è come scoprire la propria anima nel mondo». Il lavoro giusto è quello in cui si è praticamente attivi nel mondo, cioè si è se stessi e si scopre la verità su se stessi. Attraverso il lavoro, i desideri e i sogni diventano realtà e l’uomo diventa davvero ciò che è. E, questa, l’idea del lavoro come vocazione.

Il movimento romantico, che ha profondamente influenzato il mondo moderno fino al presente, vive dell’opposizione fra interiorità ed esteriorità. Il mondo esteriore è irrilevante, la verità dell’uomo è nella sua interiorità. Peggio: il mondo esteriore, il mondo del lavoro per soddisfare le necessità quotidiane e banali della vita, è il luogo dell’alienazione e della vita inautentica. In Thomas More la distinzione tra interiorità ed esteriorità certo sussiste. L’interiorità è arricchita dagli studi classici e dalla meditazione. Essa, tuttavia, non si oppone all’esteriorità ma la penetra dall’interno, viene riscoperta nella quotidianità banale della vita. Una volta il nostro autore ha scritto: la saggezza e la vera intelligenza richiedono un atteggiamento onesto davanti al mistero. La meditazione del mistero, di ciò di cui infine non potremo mai impadronirci concettualmente, è la condizione per poter comprendere davvero il mondo del quotidiano in cui siamo immersi.

Forse è per questo che il modo di argomentare di sir Thomas è talvolta criticato come tropico. Esamina un argomento da ogni lato, come fa Hegel. La dialettica di Hegel, però, alla fine ci offre come conclusione un sapere assoluto. Thomas More, invece, non ci offre una conclusione definitiva. L’intelligenza umana scandaglia i problemi e ci rende attenti alla complessità del reale, ma la soluzione del problema umano non è data all’intelligenza dell’uomo stesso. L’uomo è il problema e proprio per questo non è la risposta. La risposta viene dal mistero, che sta in noi e oltre di noi. In questo Thomas More è stato davvero profondamente inglese e a lui si può ricondurre un tratto caratteristico del pensiero anglosassone. I filosofi continentali hanno sempre cercato una filosofìa capace di sostituire la teologia, di costruire un sapere assoluto. Fedele all’insegnamento di sir Thomas, la filosofia anglosassone è sempre stata convinta di non poter pretendere troppo da se stessa. Essa rimane sempre ancilla thelogiae. Quando la teologia scompare, la filosofia custodisce il vuoto che essa ha lasciato, ma non pretende di sostituirla.

Un grande contributo sir Thomas, ha dato anche all’autocomprensione dell’università inglese. L’università è per lui il luogo in cui si forma prima di tutto l’uomo o, più esattamente, il gentiluomo. Un gentiluomo costruisce la propria auto-coscienza sulle virtù morali dell’autodominio e dell’autopossesso. Non lascerà che la passione del momento lo induca a fare qualcosa che contraddice la sua coscienza e le sue convinzioni profonde. L’autodominio non è un fine in se stesso. Dominare se stessi serve per poter cercare onestamente la verità e poi agire secondo la verità conosciuta. Cercare la verità significa riconoscere con onestà le evidenze logiche ed etiche che sono costitutive della persona umana, il desiderio che ci guida nell’andare incontro alla realtà. Questo, però, non basta. Bisogna onestamente confrontarsi con la risposta che la realtà dà a questo desiderio. Bisogna che ogni esperienza della vita venga confrontata con ciò che già sappiamo o crediamo di sapere. In questo modo, crescono le nostre certezze o, al contrario, vengono indebolite e siamo costretti a ristrutturare il nostro sapere.

Il dubbio sistematico, in un certo senso, fa parte di questo atteggiamento spirituale. È, però, un dubbio metodico e non distruttivo. Siamo, cioè, invitati a imparare sempre di nuovo ciò che crediamo di sapere. La verità, infatti, è più grande di noi, e noi progrediamo in essa senza mai riuscire a possederla del tutto. È essa, piuttosto, che ci possiede. Questo atteggiamento spirituale delinea un’alternativa sia al dogmatismo che allo scetticismo. Esso chiede all’uomo un continuo esercizio di umiltà. E questo atteggiamento di umiltà che apre lo spazio della fede. Se non sappiamo, e sappiamo di non sapere, allora ha senso esaminare con attenzione la possibilità che Dio venga incontro alla nostra ricerca rivelando se stesso. Ciò non svaluta la nostra ricerca ma la rafforza e la conferma, la corregge e la rende più serena, soprattutto quando le vicende della vita inducono a dubitare che l’impresa di trovare un senso alla vita, una corrispondenza fra la realtà fuori di noi e le esigenze fondamentali del nostro cuore, possa infine concludersi con un fallimento.

di Rocco Buttiglione