Il difficile rapporto con la fede, uno straziante lutto familiare e la provvidenziale lettura della «Fratelli tutti»

Sognare
come un’unica umanità

Il pattern di una stoffa prodotta in Nigeria
05 luglio 2021

Mio padre, uomo straordinario e amorevole, è morto improvvisamente a giugno 2020. Questo ha lasciato mia madre e noi sei figli con il cuore spezzato. Poi, a marzo, il giorno del compleanno di mio padre, anche la mia amata madre è morta in modo del tutto inaspettato. Mi è ancora difficile assimilare tutto; sembra di vivere in un romanzo nella cui trama non credo. La forza del lutto scuote e disorienta; le fondamenta che un tempo ritenevi solide diventano porose, le idee che un tempo sostenevi fermamente incominciano a scivolarti tra le dita. Il lutto porta anche una grande e tremenda fame di risposte, di rassicurazione, di consolazione. Quella fame non viene quasi mai saziata.

In questo stato emotivo ho letto l’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti. L’ho percepita come un dono del quale, fino al momento in cui l’ho ricevuto, non sapevo di avere bisogno. È molto raro imbattersi in una visione del mondo che sia ispirante e al tempo stesso accessibile; guidati dalla sua riflessione, sembra improvvisamente possibile raggiungere gli angoli migliori della nostra natura.

Il Papa è concreto nel comprendere che c’è una qualità incompiuta nel lavoro che occorre fare per realizzare tale visione quando scrive che «il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno».

Mostra quanto è attento alle sfumature universali del desiderare e appartenere quando scrive che «non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici». Riconosce importanti realtà psicologiche con le parole «demolire l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo», che non valgono solo per l’arena politica della colonizzazione, ma anche per gli spazi intimi di relazioni basate sulla violenza. Piacevolmente, respinge i facili luoghi comuni, a cui si ricorre spesso quando si affronta la questione dell’ingiustizia politica, con le seguenti parole: «È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo».

Soprattutto, e forse perché il lutto è una lotta quotidiana contro l’individualismo difensivo, nichilistico, del “io contro il mondo”, mi ha profondamente commossa l’esortazione «sogniamo come un’unica umanità». Ma questa bella frase ha fatto sorgere anche domande più oscure sulla Chiesa stessa, dovute alla mia esperienza personale. La Chiesa cattolica, specialmente la Chiesa in Nigeria, si vede come un’unica umanità? Perché prima di poter sognare come un’unica umanità deve vedersi come tale.

Sono stata allevata nella fede cattolica, nel campus della University of Nigeria; frequentavamo una chiesa piena di amore, gestita dalla congregazione dello Spirito Santo. Da adolescente indossavo la mia identità cattolica come se fosse un vestito preferito, con gioia e profondo rispetto. Ero una sedicente apologeta cattolica, che discuteva appassionatamente con i bambini protestanti in difesa di temi come la Beata Vergine Maria, la tradizione e la transustanziazione. Anni dopo qualcosa cambiò. La mia pia passione appassì.

Ricordo il primo momento in cui mi ritrassi dinanzi alla Chiesa, quando una coppia gentile e devota fu bandita dalla comunione perché la figlia aveva sposato un anglicano. A me parve crudele, e anche del tutto gratuito, come in seguito anche altri episodi, ad esempio funerali rifiutati a persone povere perché dovevano soldi alla chiesa.

Tutto questo avvenne nella mia città natale ancestrale, in una parrocchia provinciale distante dal campus universitario dove ero cresciuta. Ma quando gli Spiritani se ne andarono, anche sulla mia chiesa universitaria discese un gelo poco caritatevole. Spesso la domenica le donne di tutte le età venivano infastidite, con uomini che impedivano loro l’accesso alla chiesa a meno che non si infagottassero in scialli per coprire le spalle e le braccia (che a quanto pare avrebbero spinto gli uomini in chiesa a commettere peccato). Intere omelie venivano dedicate alle astuzie e alle malvagità delle donne. Quanto era inquietante stare lì per tutta la messa, sentendosi come se, per il semplice fatto di essere nata donna, si fosse diventate inerentemente colpevoli di un reato.

La mia alienazione divenne più profonda; ero diventata una persona in un luogo per il quale il mio spirito era diventato troppo grande. Anche se di tanto in tanto continuavo ad assistere alla messa, non mi diceva niente, e da allora ho iniziato a credere che è il significato a rendere la vita degna di essere vissuta.

Fratelli tutti ha fornito un possibile linguaggio per tale fenomeno: l’amicizia sociale. Forse alla base del mio ritrarmi c’era la mancanza di amicizia sociale.

Ma che ne è dell’amicizia sociale nella gerarchia della Chiesa? Laddove Papa Francesco scrive di «un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole», mi sono tornate in mente le parole dell’arcivescovo emerito di Abuja, la capitale della Nigeria: «Arrivo a Colonia come arcivescovo di Abuja e desidero incontrare l’arcivescovo di Colonia. La domanda che mi pongo è: “Incontrerò un fratello arcivescovo?’. In teoria, teologicamente, è ovvio che sì. Entrambi siamo successori degli apostoli, entrambi siamo responsabili di un intero gruppo di fedeli di Cristo. Ma quando arrivo a Colonia devo passare per tutta la burocrazia dell’arcidiocesi prima di poter avere un appuntamento per incontrare l’arcivescovo, sempre che sia abbastanza fortunato da ottenerlo».

In queste parole vediamo la dimostrazione di una uguaglianza che non è realmente uguale. Oggi è piuttosto comune girare in punta di piedi intorno a certe parole come razzismo, anche se è l’unica parola che descrive in modo accurato la situazione. Papa Francesco scrive che «le espressioni di razzismo rinnovano in noi la vergogna dimostrando che i presunti progressi della società non sono così reali e non sono assicurati una volta per sempre». Il clero e i religiosi neri probabilmente non riescono a condividere la sorpresa implicita in questa affermazione perché sanno, per esperienza, che il progresso sociale è lungi dall’essere completo. Hanno sperimentato il razzismo nella Chiesa, di solito non la comune manifestazione vile e volgare che è facile riconoscere e condannare, bensì la versione più sottile, che uccide lo spirito e indugia velenosamente nella mente. Questo tipo di razzismo protegge dalla vista diretta la superficialità di un’amicizia sociale che è ancora a livello di parole. Nell’esempio citato, è vero che entrambi i vescovi sono successori degli apostoli, ma a quello che si considera provenire da un luogo meno importante viene accordata minore dignità.

L’amicizia sociale autentica è impossibile in assenza di dignità, sia tra i leader della Chiesa, sia tra loro e i fedeli. L’esperienza della mia famiglia ai funerali dei miei genitori è servita a confermare, se non a rinnovare, le mie riserve sulla Chiesa in Nigeria. Tante cose avrebbero potuto essere gestite con compassione per le persone in lutto, ma non lo sono state. Tante opportunità di mostrare dignità non sono state colte. La nostra comunicazione con la chiesa locale è stata più un esercizio di potere sacerdotale che altro; abbiamo supplicato e trattato per avere una data adatta per i funerali, mostrando un’esagerata ma poco sincera deferenza al sacerdote perché non cambiasse idea rifiutandoli.

Alla messa di rendimento di grazie – strano concetto, poiché rendere grazie era l’ultima cosa che mi sentivo di fare il giorno dopo il funerale – i miei fratelli e io eravamo seduti nei primi banchi, tutti vestiti di viola, il colore preferito di mia madre, e tutti ancora sconvolti e increduli di averla seppellita così presto dopo mio padre.

Ero immersa nella tristezza e non mi sono subito resa conto quando il parroco ha iniziato a criticarmi per un’intervista che avevo rilasciato alla stampa qualche mese prima. In quell’intervista avevo parlato dell’interesse per i soldi della Chiesa in Nigeria. La Chiesa in Nigeria, avevo detto, era diventata troppo incentrata sul denaro. Ho visto porte serrate per impedire alle persone di andarsene durante la raccolta di fondi. Ho visto un sacerdote indicare le sue coordinate bancarie a una congregazione raccolta per un funerale e poi camminare impettito verso l’altare, cellulare in mano, aspettando che sullo schermo apparissero gli avvisi della banca. È disdicevole. Non sono una sostenitrice di una Chiesa povera poiché, nonostante la tradizionale esaltazione della povertà da parte del cristianesimo, una Chiesa povera difficilmente potrebbe realizzare le sue opere di misericordia. Papa Francesco, nella sua sottile critica del capitalismo moderno, non cerca lo smantellamento, bensì una nuova idea del capitale. Sostengo invece una Chiesa nella quale il donare non sembri accompagnato da una minaccia trasversale o dalla paura dell’imbarazzo, come invece accade spesso nella Chiesa in Nigeria. Una Chiesa in cui i fedeli donano volontariamente, preparati a farlo e non in seguito a un agguato, e sempre per amore.

Dopo l’intervista, le mie idee avevano ricevuto critiche, ma anche sostegno, proprio come c’era d’aspettarsi, ma erano mesi che non ci pensavo più. E quindi sono rimasta sconvolta dal parroco che, durante i funerali di mia madre, in piedi accanto all’altare diramava una risposta in termini così meschini e inopportuni da banalizzare la tremenda enormità della sua morte.

Ci si potrebbe aspettare che dopo ciò mi sia allontanata con ancora più fermezza dalla Chiesa. Invece ho iniziato ad assistere regolarmente alla messa domenicale, spinta dalla fame del lutto. Non mi considero una cattolica, ma piuttosto una persona che sta lentamente trovando sollievo nei rituali cattolici. Tale distinzione è importante, perché l’identità presume responsabilità. Essere cattolici romani significa dover dare conto di tutte le sue posizioni, cosa che, in piena onestà, non riesco a fare. Ma questo lento ritorno è giunto, per così dire, in seguito a conversazioni con clerici nigeriani – un sacerdote e un vescovo – che dimostrano le parole di Papa Francesco: «Tuttavia, è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità». E così, ovviamente, nella Chiesa in Nigeria viene praticata la carità. Ovviamente c’è amicizia sociale in migliaia di parrocchie.

La storia non è mai semplice. Ma può esserci un’oscurità ridotta, che significherebbe un numero maggiore di stelle che risplendono?

La presenza anche di una sola parrocchia oscuramente priva di amicizia sociale macchia tutte le altre, perché la Chiesa è un corpo unificato e tutte si abbeverano alla sua sorgente centrale. La Chiesa è potente – la Chiesa non sarebbe la Chiesa senza il suo potere – ma se questo potere venisse usato in maniera più delicata? È qui che diventa importante l’immaginazione. Ossia che, partendo dalla consapevolezza di come stanno le cose, possiamo utilizzare l’immaginazione umana per creare una visione di come possono essere, e tale visione diventa una forza motrice, un’icona di possibilità. Mi colpisce un tema preminente in Fratelli tutti, che è la centralità dell’immaginazione umana. Papa Francesco suggerisce che dobbiamo ripensare e re-immaginare e ri-concepire, e che questo lavoro dell’immaginazione deve essere coraggioso e uscire dalle prassi consolidate.

E se la Chiesa provinciale nella mia città natale ancestrale venisse re-immaginata come un luogo di “incontro autentico”, un luogo di dialogo vero, che Papa Francesco distingue dai meno profondi e più febbrili “monologhi paralleli”? Immagino un cambiamento nella costante priorità che la Chiesa dà alla legge rispetto all’amore. Immagino una Chiesa piena di rispetto per il clero, ma libera da quel clima di sottomissione onnipresente. Immagino una Chiesa dove il custode non è un uomo dalla faccia cattiva e non batte cupo sui banchi, dove i bambini non vengono trattati con severità, dove il prete non dà uno schiaffo al chierichetto sull’altare durante la messa. Un luogo che si potrebbe descrivere con queste parole, che Papa Francesco usa in riferimento alle persone che si prendono cura concretamente degli altri: «Ciò è meravigliosamente umano!». Nella pratica dello spirituale, l’umano è essenziale. Dentro di noi qualcosa di profondamente umano si risveglia, e prospera, dinanzi all’amore e alla gentilezza, e questa umanità è la via che conduce allo spirituale.

La società nigeriana è profondamente religiosa, facile alla superstizione e piena d’incertezza economica. Date queste condizioni, le persone assistono alla messa per abitudine e per paura, ma sarà l’amicizia sociale autentica a portare chi parteciperà semplicemente per amore. E sono questi, alla fine, che potranno sognare come un’unica umanità.

di Chimamanda Ngozi Adichie