Il grido di Giobbe in un saggio di Massimo Recalcati

Il senso del dolore

William Blake  «I tormentatori  di Giobbe» (1785)
05 luglio 2021

«Il grido è il modo più estremo della domanda». E Giobbe grida, per rompere quel dolore indicibile, accumulato e raccolto in un profondo silenzio. Giobbe grida, perché vuole resistere. E cerca risposte di senso, a quello che senso non ha. Sulla sua esistenza, improvvisamente, si è accanito il Male: ostinato e inaccettabile; quell’uomo ha perduto quanto di più caro e prezioso una persona possa perdere. «Giobbe insistentemente chiede: qual è il senso del dolore che mi affligge» scrive lo psicoanalista Massimo Recalcati rileggendo il famoso testo biblico in un libro uscito di recente per Einaudi (Milano, 2021, Il grido di Giobbe, pagine 96, euro 15)

E la domanda di Giobbe è una domanda comune: quante grida come le sue? Nella vita di ciascuno arriva un tempo in cui le domande di questo uomo segnato dal dolore toccano direttamente, turbano e inquietano. Per quel che ci accade o per quel che è accaduto a qualcuno a noi vicino. La cecità del dolore che investe anche chi è già pesantemente provato. Il non senso, «lo scandalo dell’innocente colpito», e quello «dell’uomo giusto afflitto dall’ingiustizia della sofferenza». L’assenza di Dio. «E se Dio fosse l’artefice del male, se fosse un persecutore anziché un padre?». Ecco, se non assente addirittura artefice di tanto e tale dolore. È lo stesso nome di Giobbe che porta con sé una domanda: «Dov’è il padre?». E a quella domanda, pur piegato dalla sofferenza, lui non rinuncia. Una materia, osserva l’autore, che «non è solo teologica ma è anche quella che occupa il lavoro quotidiano dello psicoanalista». Il libro di Recalcati suscita immagini e riflessioni. Un’occasione, per chiunque legga queste pagine, di rielaborare, insieme alla storia di Giobbe, pezzi della propria vita. Squarci di storia. E scoprire quanto quel testo antichissimo, masticato e rimuginato, «non del tutto estraneo alla psicoanalisi», abbia ancora da dire e rivelare. «La posta in gioco del Libro di Giobbe non è solo il senso della sofferenza umana, ma quello del rapporto dell’uomo con Dio e con la sua giustizia» scrive Recalcati. In discussione c’è il rapporto filiale e quel legame di affidamento originario, messo alla prova dall’invidia, come nel caso di Adamo e Eva nel giardino, o dalla disperazione vissuta da Giobbe, a cui davvero tutto è stato tolto. La fede nel Padre vacilla. E non è un caso, ricorda appunto l’autore, che l’etimo dello stesso nome di Giobbe si possa tradurre, dalla lingua ebraica, con la domanda: «Dov’è il padre?». Una ricerca desolata, dunque, ma anche la volontà ferma di un riconoscimento. Un anelito che non viene spento neppure dalle prove più dure. Giobbe non rinuncia a cercare Dio, a volerlo incontrare, a chiedergli conto di quanto gli è accaduto: la prostrazione e la frustrazione, la perdita degli affetti più cari, e di ogni bene materiale e fisico. Eppure non una lamentazione, ma una domanda ostinata, radicale, che assume «la forma del grido». Una richiesta di ascolto. «Il silenzio e l’assenza di Dio sono i compagni di Giobbe come saranno quelli di Gesù nell’orto del Getsemani. Ma questo silenzio e questa assenza non sono sufficienti a sospingere la vita di Giobbe verso la morte» osserva Recalcati. C’è l’esperienza di Giobbe nelle parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati». Un Amore che si fa presenza, e annulla ogni distanza. Nessun grado di separazione. «Dobbiamo vedere in questa insistenza tenace non tanto la cifra di una pazienza rassegnata e sacrificale» ma «la spinta a non cedere sul proprio desiderio», che è «un desiderio di vita». Ecco, allora, il grido che si fa preghiera. E coinvolge, scardinandolo, quello che lo psicoanalista definisce «un caposaldo morale del testo biblico, ovvero quello che proporziona il dolore alla colpa commessa». Non c’è alcuna contabilità scontata in questo rapporto: i conti non tornano. Nessuna proporzione. La sproporzione invece tra l’uomo, finito, che non vuole soccombere e non acconsente al non senso della violenza e l’Infinito, invocato, per comprendere ciò che appare incomprensibile. Giobbe «esige con determinazione di sapere la sua verità», attraversa la sua «notte» (come fa Abramo mentre conduce Isacco sul monte Moriah) senza restarne prigioniero. «ll suo baricentro si situa nell’Altro e non in se stesso – ricorda l’autore –. Egli evita il solo peccato che nel testo biblico conta: quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio».

Resta piccolo, Giobbe. Si fa piccolo. E ai piccoli, dice Gesù nel vangelo di Matteo, il Padre si rivela. «Egli scopre che è proprio la fede l’opera più grande, l’opera che dà senso a tutte le altre opere, l’opera che salva dalla caduta nell’abisso». Quel resto che «è tutto»; quel salto nel vuoto che Giobbe poi scopre risarcito in abbondanza, da una grazia che «mentre salva colui che ha dato prova di avere fede nel proprio desiderio (di Dio) mostra che non sono le opere dell’Ego a guadagnare la salvezza ma solo la loro destituzione». Fidarsi è saper restare «accanto a chi è colpito dal male». Ed è davvero quello che fa la differenza.

di Tullia Fabiani