Cinquanta ritratti a firma di Vittorio Zucconi

Quella faccia
come un letto sfatto

L’attore Walter Matthau
03 luglio 2021

Nell’incipit, splendido, del necrologio di Sandro Ciotti, il collega Gianni Mura così scriveva, su «la Repubblica», in lode del suo immacolato italiano: «Non avrebbe sbagliato un congiuntivo nemmeno con un coltello puntato alla gola».

Tale asserzione si attaglia perfettamente anche a Vittorio Zucconi, maestro nell’uso della lingua e delle sue variegate declinazioni: talento, questo, che rifulge quando la sua penna si cimenta nel forgiare un ritratto, in cui risulta essenziale la capacità di descrivere il soggetto riflesso nelle sue complesse sfaccettature.

Di conseguenza si apprezza con vivo piacere l’iniziativa del quotidiano «la Repubblica» di pubblicare L’arte del ritratto. 50 personaggi raccontati da una grande firma del giornalismo italiano (Torino, 2021, pagine 250, euro 9.90). È il classico libro che non si esaurisce in un’unica lettura: tornarci e ritornarci sarà sempre un piacere, e il potente afflato culturale che da esso emana continuerà a vibrare.

Nella presentazione, “il compagno di banco” Paolo Garimberti, dopo aver sottolineato che Zucconi «giocava con le parole come Maradona giocava con il pallone», ricorda alcuni dei suoi fulminanti incipit. Tra questi, spicca quello scritto in occasione della morte di Mark Felt, la “Gola profonda” del Watergate: «Era agosto, in un’altra mattina d’estate americana che avrebbe cambiato il mondo, quando la “Gola profonda” divorò un presidente».

Certamente non è solo la padronanza del linguaggio in tutte le sue modulazioni a costituire l’eccellenza di Zucconi: il suo linguaggio, infatti, si sostanzia di una cultura che è sintesi felice di una prospettiva storica, di una dimensione sociale, di un livello psicologico. In virtù di tale impianto, il ritratto non scade mai in un abbozzo macchiettistico, e l’ironia che pervade le pagine, per quanto acuta e tagliente, non è mai invadente, e tantomeno irriverente.

Quando, nel 2016, morì Muhammad Ali, Zucconi osserva che «nella storia della irrisolta “crisi in bianco e nero” che scuote gli Stati Uniti dalle origini coloniali e ha cominciato a lacerare anche le società europee che se ne credevano immuni, nessuno prima di Cassius Clay aveva capito e afferrato la potenza eversiva che lo sport, il ghetto dorato che l’America bianca aveva a malincuore costruito per i suoi liberti di colore, offriva».

Leggero è il ritratto che fa di Fred Astaire, come leggere, e soavi, erano le sue movenze. E pensare, ricorda il giornalista e scrittore, che la maestra di ballo, Aurelia Coccia, aveva profetizzato che non avrebbe avuto futuro come ballerino quel Fred che si sarebbe poi rivelato «uno scheletro sorridente con il cappello a cilindro», nonché «un martire con le scarpe insanguinate dalle stigmate imposte dalla sua feroce vocazione».

Guizzanti e lucide sono le definizioni che Zucconi cuce addosso ai personaggi passati al vaglio. Marlon Brando è «il più anticonformista» tra gli attori americani, insofferente verso «il laccato conformismo hollywoodiano»; Fidel Castro, «sopravvissuto ad undici presidenti americani, molti dei quali avevano cercato di eliminarlo», era «il venerabile dinosauro» sopravvissuto anche all’«era che lo aveva creato, all’utopia di una rivoluzione globale sconfitta dalla globalizzazione del capitalismo»; protagonista di una «folle avventura» è Steve Jobs, «genio immortale», capostipite di quella generazione di inventori ed imprenditori partiti da un garage della West Coast «per conquistare il mondo».

Le qualità narrative di Zucconi trovano terreno fertile nel disegnare il ritratto di Walter Matthau, dalla «faccia confusa come un letto sfatto», e si esaltano, in forza di un’asciuttezza epigrammatica, quando tessono l’elogio di Rosa Parks, che «cambiò la storia restando seduta sull’autobus» in Alabama rifiutando di alzarsi per far sedere un bianco, e che fu «una rivoluzionaria improbabile e per questo straordinariamente efficace».

Grande fu la lezione impartita da Rosa Parks, commenta Zucconi. Ci ha infatti insegnato che si può cambiare il mondo «senza sparare un colpo, senza mettere bombe». L’umile ma determinata commessa che aveva scatenato il movimento per i diritti civili e umani dei “colorati”, nel chiosare il suo gesto, ricorda Zucconi, dichiarò con candore disarmante: «Non volevo fare la rivoluzione, avevo semplicemente mal di piedi dopo una giornata di lavoro».

di Gabriele Nicolò