A colloquio con Ines Orsini

Maria Goretti:
un film e la fede

 Maria Goretti: un film e la fede  QUO-148
03 luglio 2021

«Sembri proprio Mariettina mia». Ines Orsini si emoziona non poco nel rievocare le parole che Assunta Goretti, la mamma di Maria, le disse nel 1950 stringendole le mani. Quelle parole, quasi confessate, trasmettono ancora un brivido, una magica energia: «È come se il martirio di Maria Goretti — ci racconta incontrandola — abbia prolungato, attraverso di me, solo per averla “incarnata” in Cielo sulla palude (1949), di Augusto Genina, una sorta di tenace resistenza alla vita. Ne ho passati di dolori e di disgrazie, ma sono ancora qui, integra come la luce che sprizza dall’anima, con una fede inattaccabile. Ed è questo il più grande “miracolo” che riconduco all’esperienza che ho fatto in tutti questi anni». Il corpo può sgretolarsi davanti alle avversità, ma non la fede. Suggeriscono questo gli occhi di Ines, a volte con lunghi silenzi.

L’avventura cinematografica di Ines Orsini (classe 1935) è iniziata per puro caso, convinta dalle sorelle a presentarsi a un provino dove l’avrebbe spuntata su oltre quattromila bambine candidate a interpretare Maria Goretti, in base a un’idea sviluppata da Augusto Genina e dal suo sceneggiatore Fausto Tozzi (poi regista nel 1971 del bellissimo stracult Trastevere). Un’esperienza quasi meta-cinematografica, capace di spalancarle una dimensione spirituale difficile da trovare se non si passa attraverso il fuoco di certe emozioni. Il successo del film di Genina — vincitore del Nastro d’Argento al miglior regista, Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Miglior Regia alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1949 — non ha solo il merito, a detta di grandi critici come Tatti Sanguineti o Sergio Grmek Germani, di essere considerato fra i “top 100” imprescindibili del cinema italiano ma di aver avvalorato artisticamente il ricordo dell’esperienza “gorettiana”, sempiterno valore di dolore materno e soprattutto valore di “perdono”, uno dei cardini della fede cristiana. «L’aver interpretato Maria Goretti mi ha segnato profondamente, ma l’emozione vera e propria, dopo ovviamente quella di aver visto il film montato e musicato, l’ho avvertita negli anni successivi, incontrando la gente, in Italia e in giro per il mondo, ricevendola dal pubblico che aveva apprezzato il film e dai devoti di Maria. Resto stupefatta ancora oggi quando rivedo questa pellicola e ho un ricordo nitido dello stupore di Genina, grande regista, nel vedermi recitare con estrema naturalezza, e avevo solo 14 anni! Ricordo che la scena, sul letto di morte, quando Maria con un filo di voce dice di voler perdonare il suo carnefice, Alessandro Serenelli, e di volerlo con lei un giorno in Paradiso, me la fecero ripetere moltissime volte, perché la moglie di Genina ci teneva a far emozionare anche alcune sue amiche, che vollero assistere a diversi ciak. Era la scena clou, forse la più emozionante di un film che è tutto un concentrato di estrema emozione e poesia».

Il sorriso di Ines è contagioso e l’averla trovata dopo molte ricerche mi ha donato non solo la gioia cinefila di capire di più su uno dei film che più amo, ma anche di avvertire un filo d’appartenenza a un passato che mi coinvolgeva ancor prima di conoscerlo, di venirne a contatto: «Girare il film, che inizialmente non volevo fare – ero piccola e parecchio spaventata – è costato molto alla mia famiglia, che era di umili origini. Vivevamo ad Acilia, in piena borgata romana. Mia madre doveva accudire nove figli e mio padre, guardia giurata; prese sette mesi di aspettativa dal lavoro per accompagnarmi ogni giorno a Cinecittà, dove girammo gli interni. Gli esterni invece li abbiamo girati a Fondi, soprattutto per le scene dove occorrevano gli acquitrini che avrebbero dovuto riprodurre le paludi pontine di inizio secolo, intorno a Nettuno. Girammo anche diverse sequenze a Castiglione della Pescaia. Fu una lunga e dura lavorazione, genuina, verace. Se era prevista una scena di pioggia, si aspettava che piovesse, così come una giornata di caldo afoso o di vento forte. Ogni tanto sfoglio il mio album e riguardo le foto di scena del film, sono meravigliose, il gioco di luce e ombre, la scelta accurata dei luoghi. Mi viene quasi da piangere».

Cielo sulla palude sembra essere stata dunque, dalle parole di Ines Orsini, un’immersione di vita totale, di stupore e sofferenza, sotto tanti punti di vista. Vedere certi film – da Leo McCarey a Ermanno Olmi – è come pregare e gli occhi lucidi di Ines, che nella sua casa di Frosinone mi racconta la sua vita come se stesse strappando brandelli di luce, sembrano non volersi spegnere nel ricordo di certi particolari. «Ricordo la scena in cui Marietta vede per la prima volta il mare e l’ultima, quando poco prima di morire prega la suora dell’ospedale di aprire la finestra, perché vorrebbe sentire ancora una volta il rumore del mare di Nettuno».

Anche se vorrei non posso addentrarmi con la signora Orsini in discorsi troppo tecnici sulla sua interpretazione o sul valore neorealista della pellicola e mi limito ad ascoltare le ragioni che le hanno permesso di maturare, di capire il martirio di Maria Goretti, un martirio che ogni giorno si rinnova in un mondo dove la violenza, soprattutto verso le donne, non accenna a diminuire. Forse molti non sanno che Cielo sulla palude non è stato l’unico film interpretato da Ines Orsini e ancor più interessante è sapere com’è maturata la seconda e ultima esperienza cinematografica della sua carriera sul grande schermo: «Maria Goretti è stata santificata nel giugno del 1950. È stata una giornata incredibile, emozionante, commovente, un fiume di gente riempiva piazza San Pietro, fino al Tevere; è stata la prima cerimonia di canonizzazione pubblica e il clamore si era sparso in tutto il mondo. Roma era invasa da pellegrini. Il film era uscito appena qualche mese prima e fui ricevuta da Pio xii , il quale mi disse che, se avessi voluto proseguire la carriera di attrice, avrei, in rispetto alla figura di Maria Goretti, dovuto interpretare solo personaggi di carattere religioso. È così che, circa un anno dopo, fui contattata da una produzione spagnola per interpretare il film Il segreto di Fatima (1951), di Rafael Gil, dove nel cast figurava anche Fernando Rey, grande attore». Una sorta di promessa dunque, fatta al Pontefice, la tiene, dopo l’esperienza in Spagna, legata al mondo “gorettiano” e una volta abbandonata l’idea di condurre una carriera cinematografica, anche se “di genere”, la induce a restare presente nella comunità di Nettuno, del santuario di Nostra Signora delle Grazie, dove è custodito il corpo di “Marietta”, di sentirsi insomma parte attiva in un microcosmo popolar-religioso che tanto la tiene in calda considerazione, come una sorta di superstite, di testimone di un mondo di semplicità ormai andato, perduto, ma che resiste nel cuore di chi crede tenacemente alla forza della fede e soprattutto alla forza del perdono. «È il perdono — sottolinea — il fulcro del ricordo di Marietta; il perdono è la cosa più difficile del mondo, ecco perché è tenuto tanto in alto dal culto cristiano. Se riuscirai a perdonare, finanche l’assassino di tuo figlio, avrai la forza di cambiare il mondo. L’esperienza di Maria Goretti insegna che solo attraverso il perdono si può liberare l’altro, il colpevole, il quale cova la rabbia e la colpa di non meritare alcuna clemenza. Il perdono è l’atto d’amore più alto e anche l’arma più efficace contro l’odio». Non devono stupire le parole dette con questa semplicità e forza disarmante, così come non dovrebbero mai stupire, a distanza di settant’anni, le rivelazioni di una donna rimasta bambina nel cuore: «Ho vissuto la violenza del film quasi come se fosse reale. Mi dovettero spiegare perché Marietta era morta, e quando mi dissero il significato di “violenza carnale” ne ebbi timore. Avevo paura persino a sedere accanto a Mauro Matteucci, l’attore che interpretava Alessandro Serenelli. Usavo mio padre da scudo. Ho incontrato il vero Alessandro Serenelli in seguito e anch’egli, dopo mamma Assunta, mi confermò la somiglianza con Maria: “Ines Orsini assomiglia nel volto e nell’anima a santa Maria Goretti”». Mi sentii come sollevata da quelle parole; chissà perché, il volto povero, dimesso di quell’uomo mi fece tenerezza».

Serenelli, dopo ventisette anni di carcere scontati per l’omicidio della dodicenne Maria Teresa Goretti, avvenuto nel 1902 a Le Ferriere, nei pressi di Nettuno, aveva scelto di vivere in disparte, presso un convento di frati cappuccini di Ascoli Piceno. È fin troppo ovvio che le parole dell’uomo rivolte a Ines Orsini nascondano un segreto luminoso. Perché avrebbe detto “assomiglia nel volto e nell’anima?”. Forse perché la mimesi tra l’attrice e la vera Maria, trasognata nel ricordo, era ormai matura e il desiderio da parte dell’uomo di riaverla davanti, di riabbracciarla era talmente intenso da portarlo a sintetizzare al massimo la sua emozione, sopita negli anni, nel momento in cui la fede, attraverso il perdono, aveva a spron battuto scavalcato il rimorso.

di Ignazio Gori