Storie di misericordia
Dalla giustizia riparativa si può generare solo del bene

La seconda vita
di Claudia e Irene

Irene Sisi (a sinistra) e Claudia Francardi
03 luglio 2021

Quella che vi stiamo per raccontare è molto più di una storia di amicizia. È l’esempio di come dall’orrore di una vita tolta con la violenza possa nascere la luce di un rapporto profondo, una riconciliazione, un percorso riabilitativo sincero e concreto. Ma prima occorre partire da un antefatto. Nella notte fra il 24 e il 25 aprile 2011, quattro ragazzi di ritorno da una festa, vicino a Grosseto, vengono fermati per un controllo da una pattuglia di carabinieri. La reazione di uno dei giovani, Matteo Gorelli, unico maggiorenne del gruppo, è feroce: l’appuntato Antonio Santarelli, capopattuglia, entrerà in coma per le lesioni riportate e morirà tredici mesi dopo; il carabiniere scelto Domenico Marino, invece, perderà un occhio.

È anche di quella notte di dieci anni fa che si è parlato nel corso del seminario organizzato dalla Società di San Vincenzo De Paoli dal titolo Mediazione penale e giustizia minorile: quando la rieducazione alla legalità e il recupero sociale del minore passa anche dall’incontro con la vittima del reato. «Era un Lunedì dell’Angelo, c’era il sole, ero a casa con mio figlio. Quando il capitano dei carabinieri e un collega di mio marito si presentarono alla porta della mia casa per spiegarmi quello che era successo, è iniziata la mia seconda vita», ricorda Claudia Francardi, vedova dell’appuntato Antonio Santarelli. «Mio marito è rimasto per ben tredici mesi in uno stato di coma vegetativo: non aveva neanche la minima coscienza, non ha mai nemmeno riaperto gli occhi. All’inizio rifiutavo di parlare coi medici, pregavo e chiedevo preghiere, mi sono affidata al Signore per chiedergli un miracolo. Ci ho creduto per mesi, illudendo anche mio figlio, speravo di potercela fare, almeno a riparlare con mio marito, a riprendere un contatto con lui, anche se fosse rimasto su un letto o su una carrozzina. Ma questo non è stato possibile. Dunque dopo qualche mese, quando finalmente ho accettato la verità, è cominciata una discesa nel buio più profondo».

Per Claudia si spalancavano le porte della depressione profonda: «La mia fede mi ha consentito di non perdere mai di vista una piccolissima luce in fondo al tunnel. La speranza che ci fosse un senso a questa storia, e la ricerca di questo senso, è stata ciò che ha mosso tutto il mio cammino successivo. Mi sono affidata ai medici per uscire da questo male oscuro: desideravo di morire, l’unico appiglio alla vita era diventato mio figlio, che mi dava la forza per continuare a vivere. Ma sentire il suo dolore per la mancanza del padre era devastante, un doppio dolore: la perdita di mio marito e la sofferenza di mio figlio. All’inizio immaginavo che potesse finire bene come nei film, con lui che si risveglia dal coma con un sorriso e poi tutto che torna come prima; ma a un certo punto anche quel sogno svanì, perché mi resi conto che la realtà era molto più cruda. L’aiuto degli amici, delle preghiere e delle cure mediche, allentavano questa morsa del dolore costante per pochi minuti. Poi la morsa ricominciava a stritolarmi».

Poi un giorno nella vita di Claudia arriva il grande cambiamento, sotto forma di una lettera: «Me la recapitò un sacerdote di Grosseto che conoscevo bene. Non sapevo però che fosse il cappellano del carcere né che andasse regolarmente a trovare il ragazzo che aveva ucciso mio marito. Quella lettera l’aveva scritta la mamma, Irene Sisi. E avrebbe gettato le basi per ciò che è nato tra noi». Di lì a due mesi, infatti, Claudia e Irene, due donne distrutte dal dolore, si sarebbero incontrate. E da quell’incontro sarebbe nato qualcosa di difficile da descrivere.

«La giustizia riconciliativa non è un’alternativa alla giustizia dei tribunali — spiega Claudia — ma io in quella giustizia non trovavo più conforto. Quando entravo in un’aula trovavo un ambiente freddo, c’era un pubblico ministero che nemmeno mi salutava, quando invece io mi aspettavo che sarebbe venuto a chiedermi perlomeno come stavo. Avevo bisogno di sfogare il mio dolore, avrei voluto raccontare tutti i miei stati d’animo, ma nessuno stava ad ascoltarmi». Così l’incontro con Irene fu taumaturgico per Claudia: «Ha gettato i semi della mia guarigione. Quel giorno ci abbracciammo, ci raccontammo le nostre emozioni, lei ascoltava soffrendo per quello che aveva procurato suo figlio. Alla fine ci abbracciammo, le dissi che non la stavo giudicando, anch’io ho un figlio adolescente. Il mio vero desiderio era che venisse a vedere in quali condizioni era mio marito. Lei accettò e così, qualche mese dopo il nostro primo incontro, Irene venne nel centro risvegli di Montecatone, vicino a Imola, dove mio marito era ricoverato», ricorda Claudia. Ciò che accadde quel giorno resterà nella memoria di entrambe per tutta la vita: «Lasciai Irene sola con mio marito, anche se lui era in coma e non poteva capire nulla di quello che lei le diceva. Ma sono certa che la sua anima era presente, Irene parlò a quell’anima, le chiese perdono per quello che aveva fatto suo figlio. Da quel momento cambiò tutto: lei poteva raccontare al suo Matteo ciò che aveva visto. Un conto è leggere un nome scritto su un giornale, un conto è trovarsi davanti alla persona orrendamente ferita».

Da quella volta, Irene e Claudia cominciarono a sentirsi costantemente. Quando arrivò la fine del processo di primo grado, ci fu un’altra svolta: «Quel giorno la giustizia, infliggendo l’ergastolo, ha tolto un’altra volta la vita al mio Antonio. Provai un grande dolore di fronte a questa condanna, mentre tutti gioivano perché “giustizia era stata fatta”. Io piangevo per questo ragazzo, lui mi guardava e mi sorrideva cercando di rassicurarmi, pensai fosse impazzito. A distanza di un mese e mezzo volli andare a trovarlo nella comunità dove si trovava. Ci abbracciammo forte, potevo sentire fisicamente la sua disperazione, che fino a quel momento avevo colto solo nel suo sguardo in tribunale. Eravamo entrambi disperati: io per il lutto e la mancanza, Matteo per la consapevolezza di aver commesso qualcosa di irreparabile. In quell’abbraccio sentii il suo cuore battere così forte che sembrava dovesse uscire dal suo corpo. Le sue lacrime mi bagnarono, mi rivelò che era stato tutta la notte sveglio per l’emozione e il timore di incontrarmi».

Da quel momento, Claudia, Irene e Matteo non hanno più interrotto il loro percorso, nonostante gli ostacoli: «Da quando la sentenza è divenuta definitiva, non mi è stato più possibile incontrare il ragazzo», spiega Claudia. «Non essendo io considerata una vittima, non posso vederlo se non utilizzando il monte ore a disposizione per le visite della madre. E non mi sento proprio di farlo». Ma questo non ha impedito alle due donne di trovare una soluzione: «Irene è diventata la mediatrice tra me e Matteo, racconta a lui quello che io e lei, insieme, stiamo facendo, cioè gli incontri nelle scuole, nelle carceri, la nostra testimonianza di come una giustizia riparativa possa generare solo del bene. Lui sa del percorso che sto facendo io, io so di quello che sta facendo lui, la sua fresca laurea, il lavoro in comunità per donare la sua esperienza a ragazzi che come lui hanno infranto le regole e spiegare loro che è questa la vera giustizia riparativa».

L’unico cruccio che resta a Claudia è forse anche il più grande: «Se non ci fosse Irene, la giustizia non farebbe nulla per facilitare questa risorsa immensa che abbiamo costruito con Matteo. Per me è rinascita, per lui è un dono alla società. Ma sembra quasi che la giustizia riconciliativa non possa funzionare quando un ragazzo entra nel carcere degli adulti, per meri motivi burocratici. E questo è davvero un grande peccato».

di Valentino Maimone