«La fioraia di Sarajevo» di Mario Boccia e Sonia Maria Luce Possentini

La domanda sbagliata
alla persona giusta

«La fioraia di Sarajevo»  fotografata da Mario Boccia
03 luglio 2021

Un giorno di febbraio del 1992 un uomo si aggira tra le bancarelle del mercato di Baščăršija (Sarajevo), portando due macchine fotografiche al collo. Quest’uomo si chiama Mario Boccia, il suo mestiere è quello di raccontare storie e per farlo ha bisogno, non solo di andare là dove accadono le cose, ma pure di porre a tutti domande e interrogativi. Tuttavia, in quell’inverno di ventinove anni fa, rivolgendo uno dei suoi quesiti a una commerciante di fiori, il fotoreporter commette un errore.

«Le feci la domanda più stupida, chiedendole quale fosse la sua etnia. Mi rispose subito: “Sono nata a Sarajevo”. Credendo di essere furbo, le chiesi quale fosse il suo nome. E lei mi disse qualcosa che annotai su un foglietto. Più tardi, chiesi a un amico se quel nome che avevo scritto era serbo, croato o musulmano. “Quale nome?”, rispose. “Qui c’è scritto solo fioraia”. Avevo ricevuto la prima lezione». Una lezione, per essere precisi, su cosa voglia dire “cittadinanza” e su cosa significhi appartenere a una comunità, a prescindere da etnia, religione o background culturale.

Oggi Boccia, dopo averne fatto tesoro, quest’insegnamento lo trasferisce ai lettori, soprattutto ai più piccoli, a cui parla per mezzo de La fioraia di Sarajevo (Roma, Orecchio Acerbo, 2021, pagine 40, euro 16), il libro che ne racchiude la vicenda e di cui è autore insieme all’illustratrice Sonia Maria Luce Possentini. Si tratta, dunque, di un volume che s’incentra sì, sulla storia della donna — un fiore tra i fiori, simbolo di chi difende con coraggio la propria identità e ai muri preferisce i ponti — e che, poi, passa ad analizzare la Storia, quella con la “ s ” maiuscola. Quanto avviene alla fioraia di Sarajevo (dal fatto che a un certo punto venda fiori di carta a quello in base al quale si presenti al mondo come fioraia e non col suo nome) trova, del resto, contestualizzazione nelle parole e nelle immagini presenti pagina dopo pagina.

Con estrema delicatezza, a chi legge, viene infatti spiegato che Sarajevo — dove «differenti culture e religioni vivevano insieme da secoli», così come gli «antichi luoghi di culto sorti uno accanto all’altro: moschee, sinagoghe, chiese ortodosse e cattoliche» — circa due mesi dopo il primo incontro tra il fotoreporter e la fioraia, viene «aggredita e assediata per 1.395 giorni».

Sono quattro anni lungo i quali, nella sola capitale della Bosnia-Erzegovina, muoiono oltre undicimila persone, «in maggioranza civili e, tra loro, più di mille bambini», a cui l’infanzia è completamente distrutta (toccanti, privi di retorica e senza gli stereotipi della rappresentazione del dolore, i disegni che ritraggono i bambini che giocano con il poco che gli è rimasto, in mezzo alle macerie della loro città).

Non va inoltre dimenticato, per quanto riguarda il conflitto nei Balcani, frutto della follia cieca dei nazionalismi, il genocidio di Srebrenica del 1995: tra gli ottomila bosniaci musulmani, uccisi dalle milizie serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić (rispetto al quale lo scorso 8 giugno la Corte dell’Aja ha confermato la condanna all’ergastolo), moltissimi ragazzi, alcuni ancora in corso di identificazione.

«Pensando [a] “popoli diversi”, in lotta (…) feci una domanda sbagliata alla persona giusta: la “Fioraia di Sarajevo”. La sua non-risposta mi fece capire il valore della parola comunità e quanto lei volesse difenderla da chi voleva dividerla con la guerra», precisa, nuovamente nel testo, Boccia, il quale, dalla fioraia che fotografa per l’ultima volta nel 1994, a seguito della strage di Markale, impara anche una seconda lezione. «Se non lasci alla guerra il potere di cambiare la tua identità e il tuo ruolo, allora hai vinto».

La fioraia di Sarajevo è, in altri termini, emblema di chi non si piega alle divisioni, di qualunque tipo esse siano: nonostante le brutture della guerra, questa donna — protagonista del volume e di un pezzo di Storia su cui gli sguardi sono spesso distratti e indifferenti — continua a vendere fiori (probabilmente superflui vista la situazione, ma segno manifesto di resistenza), rimane al suo posto all’interno del mercato, lì dove deve stare, perché vi è nata, vi appartiene e questo è un dato di fatto che nessuno, neanche chi in mente ha “grandi” progetti di pulizia etnica, può cambiare.

Una donna — la nostra fioraia determinata e resiliente fino alla fine — che fa un po’ pensare ad altre donne, in particolare a quelle di Bratunac, a pochi chilometri dalla già citata città d’argento, Srebrenica: qui, nel 2003, Rada Žarković ha fondato la cooperativa agricola Insieme, che, non a caso, Mario Boccia ritiene un’esperienza da premiare col Nobel per la pace e di cui è da sempre attivo sostenitore, proprio perché trattasi di un progetto che vede lavorare fianco a fianco donne che sono nate nello stesso luogo, fanno parte dello stesso popolo e superano, pertanto, le contrapposizioni imposte dalla guerra, lavorando e producendo marmellate o succhi di piccoli frutti (sono i cosiddetti «lamponi e frutti di pace»), dimostrando che lo scambio, l’incontro, il dialogo, la reciproca conoscenza, l’accoglienza, la ricostruzione e la speranza (su tutte quella che i profughi e coloro che furono costretti a fuggire tornino nella loro terra) sono assolutamente possibili.

Ebbene, esempi di tale tipo devono essere «lo specchio del mondo», devono venire raccontati alle nuove generazioni in modo che i bambini e i ragazzi del futuro, non solo non calpestino la memoria, ma capiscano pure che si può stare vicini nelle differenze, che arricchiscono e non possono mai far male.

Le marmellate, d’altronde, sono marmellate. E i fiori restano fiori, uguali a se stessi: nulla vale chiedersi se essi siano serbi, croati o musulmani.

di Enrica Riera