Il corpo della martire fu traslato nell’821 nella Basilica di Trastevere

Il canto celeste di Cecilia

 Il canto celeste di Cecilia  QUO-148
03 luglio 2021

Imbattersi nel cognome Maderno significa quasi sempre avere a che fare con l’architetto Carlo e con il maestoso edificio di San Pietro in Vaticano, al quale il suo nome è inscindibilmente legato. C’è però un Maderno meno noto, Stefano, il cui ricordo è invece connesso con un’opera incomparabilmente più piccola: la scultura che raffigura santa Cecilia, posta sotto l’altare maggiore della Basilica trasteverina a lei intitolata. Il corpo della ragazza — che subì il martirio a Roma all’inizio del iii secolo durante la persecuzione anticristiana perpetrata dal prefetto Almachio — giace «appoggiato sul lato destro con le gambe un po’ contratte, le braccia protese in avanti, con la testa assai ripiegata, il viso rivolto verso terra a guisa di chi dorme».

La citazione è tratta dal testo che l’archeologo maltese Antonio Bosio redasse nel 1599 durante la ricognizione delle spoglie della martire, ritrovate intatte il 20 ottobre di quell’anno in occasione di una campagna di scavi eseguita nella chiesa di Trastevere in vista dell’imminente Giubileo. E sembra la precisa descrizione dell’opera di Stefano Maderno. La ragazza, continua il Bosio nel suo “reportage”, era avvolta «in vesti preziose, le stesse di cui l’aveva adornata papa Pasquale i , protagonista della prima invenzione del corpo della giovane romana, nell’821». Le parole dell’archeologo assai probabilmente fecero da guida all’artista nella composizione del suo capolavoro. «Se consideriamo l’intero catalogo dello scultore», spiega Maria Cristina Terzaghi nel libro Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera&Costa (Roma 2007), «nessuna realizzazione presenta una novità iconografica e stilistica paragonabile con la Santa Cecilia, che, quand’anche non venga considerata una vera e propria copia delle spoglie della santa, non può a mio avviso essere agevolmente letta senza l’imprinting prodotto dal rinvenimento delle spoglie della martire». Secondo Claudio Strinati, la scultura del Maderno è «veramente l’immagine di una tenera e dolce fanciulla che riposa in eterno, come se stesse per nascere e non come se fosse stata ritrovata dopo la morte». «Si potrebbe dire», aggiunge lo studioso, «che sia in assoluto la prima opera d’arte della storia dell’arte del Seicento, emblematica e sommamente significativa» (Il mestiere dell'artista. Dal Caravaggio al Baciccio, Palermo 2012).

Sono dunque trascorsi milleduecento anni dal primo rinvenimento del corpo incorrotto di Cecilia. Pasquale i , che inaugurò all’inizio del ix secolo un periodo di rinascenza artistica della città, lo ritrovò, secondo la tradizione, nelle Catacombe di San Callisto, su indicazione della stessa Cecilia apparsagli in sogno. Poi lo traslò, insieme alle reliquie dei suoi compagni di martirio (il marito Valeriano, il di lui fratello Tiburzio, e Massimo, l’ufficiale romano convertito dai due), nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, un titulus attestato già nel v secolo e per l’occasione fatto ristrutturare dal Pontefice. Da allora, Cecilia riposa in questa chiesa. E la sua raffigurazione in marmo realizzata da Stefano Maderno — nella quale mostra un taglio sul collo, segno dei tre colpi infertile dal boia che non riuscì a decapitarla — «ancora oggi», osserva Strinati, «non cessa di stupire e di commuovere» i pellegrini, i fedeli e i semplici curiosi. La vide anche Teresa di Lisieux durante il suo viaggio a Roma del 1887, prima del quale, secondo il suo racconto, non aveva «alcuna devozione particolare per quella santa ma, visitando la casa trasformata in chiesa, luogo del suo martirio… sentii per lei più che una devozione: una vera tenerezza d’amica... Ella divenne la mia santa prediletta, la mia confidente intima... Tutto in lei mi rapisce, soprattutto il suo abbandono, la sua fiducia illimitata…».

Qualche anno dopo, nel 1894, Teresa compose una poesia su Cecilia, ricordandone implicitamente il rapporto con la musica: «Con il tuo canto celeste sveli l’Amore, / l’Amore che non teme nulla, che s’addormenta / e dimentica se stesso, come un bambino, sul cuore del suo Dio». Parole che paiono riecheggiare in quelle che papa Benedetto xvi pronunciò nel 2010 dopo aver ascoltato la composizione di Arvo Pärt Cecilia, vergine romana: «Allora l’opera d’arte più bella, il capolavoro dell’essere umano è ogni suo atto di amore autentico, dal più piccolo — nel martirio quotidiano — fino all’estremo sacrificio. Qui la vita stessa si fa canto: un anticipo di quella sinfonia che canteremo insieme in Paradiso».

di Paolo Mattei