Miłosz e il «bagaglio di gioia» dell’infanzia

Uno spazio «altro»

 Uno spazio «altro»  QUO-146
01 luglio 2021

Ha attraversato tutto il Novecento, cercando continuamente di capirne le trame, senza accontentarsi mai di interpretazioni a priori. «Il vero nemico dell’uomo — scriveva — è la generalizzazione / Il vero nemico dell’uomo, la cosiddetta Storia». Davanti alle tragedie che hanno segnato il suo secolo e al tempo stesso la sua vita Czesław Miłosz (1911-2004) ha risposto con lucidità, vitalismo, disciplina artistica e spirituale, arrivando a una produzione che ha pochi uguali per ampiezza e profondità. Un gigante della letteratura, che ci ha lasciato capolavori assoluti sia nella poesia, che nella saggistica, che nella traduzione.

Anche se i primi ricordi sono legati alla guerra, l’infanzia in Lituania ebbe anche momenti idilliaci, «un bagaglio di gioia» che Miłosz porterà con sé per tutta la vita. Lituania e Polonia erano state per diversi secoli unite in quello che prima delle spartizioni di fine Settecento fu uno dei più grandi Stati europei. Il dominio zarista non aveva cancellato da quelle zone una tradizione di armoniosa coesistenza fra le diverse etnie, fra proprietari terrieri di lingua polacca e contadini di lingua lituana, oltre naturalmente a ebrei e ruteni. Nella biblioteca della tenuta di Šeteniai, di proprietà dei nonni, Czesław conosce i versi del vate del Romanticismo Adam Mickiewicz, sulla cui opera tornerà più volte nella sua saggistica.

Fra Miłosz e Mickiewicz, i due grandi polacchi di Lituania, molte sono le analogie. Nella linea che li unisce si inserisce anche un parente illustre, Oscar Miłosz, che si era trasferito a Parigi nel 1889, diventando un poeta francese. Per Czesław sarà una sorta di modello spirituale, un maestro che gli insegna a vedere il mondo oltre la materia, a cercare un piano divino, un senso nascosto negli avvenimenti. La sacralità della letteratura e la sua fine dopo il Romanticismo, la lezione di Blake, Swedenborg, Mickiewicz, Dostoevskij, Oscar Miłosz saranno il motivo di uno splendido libro del 1977, La terra di Ulro.

Ma negli anni Trenta Miłosz si muove nello spazio ben più quotidiano di una Vilnius che ha riacquistato l’indipendenza e, come il resto dell’Europa, vede crescere un minaccioso nazionalismo. Lo scrittore, allora studente di giurisprudenza impegnato a sinistra, scrive qualche testo di pubblicistica piuttosto radicale e nel 1933 debutta come poeta nell’ambito di un movimento d’avanguardia che viene definito catastrofista: la percezione di una minaccia incombente su un mondo in preda al caos si sarebbe di lì a qualche anno rivelata fondata.

Durante la guerra è a Varsavia, dove lavora per la stampa clandestina. Dall’esperienza dell’occupazione e dell’Olocausto nascono di getto due delle sue poesie più famose, Un povero cristiano guarda il ghetto, nella quale si interroga sulla corresponsabilità e sul senso di colpa di chi osserva, e Campo dei Fiori, costruita su un parallelismo fra Giordano Bruno, che «non trovò nella lingua umana neppure un’espressione per dire addio» alla marmaglia che restava, e gli ebrei che bruciavano nel ghetto, mentre la gente si divertiva a Varsavia «presso la giostra, in una chiara serata d’aprile».

Nel 1946 è a New York, impiegato al consolato polacco. Ma il mondo americano in cui si ritrova dopo l’inferno della guerra è per lui altrettanto inaccettabile, segnato com’è da un materialismo quasi privo di spiritualità. Tornare in Polonia, il cui destino dopo la Conferenza di Yalta è ormai segnato? Come diplomatico intraprende una rischiosa partita a poker col potere stalinista, fra momenti di fiducia reciproca e ritiro del passaporto. Alla fine, a Parigi, si decide a chiedere asilo politico. Bollato come traditore, i suoi libri verranno ritirati dalle biblioteche in Polonia, mentre sull’altro fronte l’emigrazione polacca lo considera un opportunista, una spia. La riflessione sul rapporto fra gli intellettuali e il nuovo potere in Polonia lo ispira a scrivere La mente prigioniera, una della analisi più penetranti dei meccanismi (fede, paura, opportunismo) che hanno portato gli scrittori a collaborare con la dittatura. Ma le idee del libro restano valide anche fuori dal contesto storico in cui è nato. Anche se non è un’opera distopica, La mente prigioniera può essere considerato un libro attualissimo, alla stregua di 1984 di Orwell. Altro capolavoro degli anni Cinquanta è La mia Europa, ricostruzione fra saggio e autobiografia di una propria geografia dell’infanzia e della giovinezza.

Dal 1960 è professore di letteratura a Berkeley. Trova finalmente la stabilità economica e diventa un punto di riferimento culturale negli Stati Uniti, ma esce definitivamente dal giro dei poeti che scrivono in polacco. Continuerà comunque la produzione poetica (con anche alcune notevoli traduzioni) e saggistica. Nel 1980 arriva il premio Nobel che, visto dalla prospettiva della produzione successiva, appare tutt’altro che un punto d’arrivo. Visita la Polonia, sostiene Solidarność. Negli anni Novanta si trasferisce definitivamente a Cracovia, dove muore nel 2004. Gli ultimi anni sono ancora molto prolifici, siamo alla grande sintesi.

L’ultimo, incredibile capolavoro, Druga przestrzeń (L’altro spazio), lo scrive all’età di novant’anni: Miłosz ancora spazia dal trattato in forma poetica alla purezza di haiku, come nella famosa Se: «Se Dio non c’è / allora all’uomo non tutto è permesso. / È il custode di suo fratello / e non può rattristare suo fratello / raccontandogli che Dio non c’è».

di Leonardo Masi