Perché la poesia, in generale, perché l’arte? Speriamo che questa domanda non perda mai la sua serietà e bellezza. Per fortuna c’è sempre gente che crede non si possa vivere, umanamente, senza arte, filosofia e teologia. Uno di loro, ma non l’unico, è il filosofo Leszek Kołakowski (1927-2009). Nel saggio Gesù ridicolizzato, riflettendo sulla possibilità e sul senso della risurrezione di Gesù e contestando l’affermazione che tale avvenimento sia semplicemente frutto della fantasia, chiede: «Chi può dire oggi con certezza che questo o quello è impossibile? Nel
Al filosofo si unisce Czesław Miłosz (1911-2004). In una poesia intitolata Karawele (Caravelle) leggiamo: «Per dichiarare un uomo che perdeva sangue dalle ferite / Dio e il Signore dell’universo, / Ci voleva una follia — prova sufficiente / Che la nostra specie raggiunge l’impossibile». Pertanto il filosofo e il poeta creano credendo che in questo modo lasciano parlare la realtà, tutta la realtà. Inoltre, cercano di udire e articolare la voce della stessa realtà. Diventano un medium, attraverso cui, quello che c’è, si comunica. In breve, il filosofo e il poeta fanno sì che questa dura realtà, la quale avremmo dovuto fino alla fine analizzare e raccontare esclusivamente nel linguaggio delle scienze naturali e matematiche, ci riveli una profondità senza fondo che, con il progresso delle stesse scienze, invece di scomparire, continua ad approfondirsi e allargarsi. Oggi diventa un mistero più grande di ieri. E quello che sembrava un paradigma indiscutibile, perde la sua importanza a favore di ciò che è impossibile.
Qui subentra il teologo, Karol Wojtyła (1920-2005). Nel Trittico Romano, già come Giovanni Paolo
E così, seguendo Giovanni Paolo
Ma cos’è questa storia, con che diritto dobbiamo violare, anzi, andare oltre i limiti descritti dall’angelo ed entrare nei limiti stabiliti dal diavolo? Tranquilli, questo dilemma non è niente di nuovo se nella Veglia pasquale nel cuore della notte cantiamo un inno poetico: «O immensità del tuo amore per noi! (…) / per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio! / Era necessario il peccato di Adamo, / che è stato distrutto con la morte del Cristo. / Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!».
Torniamo a Miłosz, che nel Trattato teologico si confessa ai lettori. Dice che per tanti anni guardava dall’alto i suoi confratelli di fede, ritenendoli, come minimo, poco raffinati per quanto riguarda la religione e la cultura, considerando sé stesso «qualcosa di meglio di loro». Solo trovandosi negli Stati Uniti, al bivio dell’autostrada: «Dove una corsia / porta a San Francisco, l’altra a Sacramento. / Ha pensato che un giorno deve scrivere un trattato / teologico per redimere il suo peccato / dell’orgoglio egoistico».
Ed è successo. Verso la fine della vita — e la parola pronunciata in queste circostanze ha il sapore dell’adempimento dell’invisibile e dell’impossibile nel visibile — il poeta dice: «Tale trattato un uomo giovane non lo scriverà. / Non penso però che lo detta la paura della morte. / Questo è, dopo tante prove, semplicemente un ringraziamento, / e anche un addio alla decadenza, / nella quale è caduto il linguaggio poetico del mio tempo. / Perché la teologia? Perché il primo deve essere il primo. / E questo è il termine della verità. E proprio la poesia / con il suo comportamento dell’uccello spaventato / che sbatte sul vetro trasparente, attesta / che non sappiamo vivere in una fantasmagoria. / Che al nostro parlare torni la realtà. / Cioè il senso, impossibile senza un assoluto punto / di riferimento».
Pertanto, anche se per molti il nostro mondo di oggi è una terrificante «valle di lacrime», oppure una noiosa fantasmagoria alla fine della quale tutto sarà inghiottito dal nulla, eppure ci sono tra noi, come vediamo, le persone che non smettono di ripetere: «Fermati, questo trapasso ha un senso, / ha un senso... ha un senso... ha un senso!».
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