DONNE CHIESA MONDO

Guerriere

Il coraggio che ribalta
gli equilibri del mondo

Paul Delaroche, «Giovanna d’Arco è interrogata  in prigione dal cardinale di Winchester», 1824, Museo delle Belle Arti, Rouen  (Wikimedia commons)
03 luglio 2021

Jeanne d’Arc, arsa viva e poi santa, fu caso politico e religioso


Jeanne o Jeannette è una donna di circa diciannove anni quando il 30 maggio 1431 muore sul rogo nella piazza del mercato di Rouen. Paradossalmente la ragione della condanna è la sua “ricaduta” (relapsa) nell’eretica pravità (haeretica pravitas) per aver indossato abiti maschili, mentre si trovava rinchiusa in carcere. Non è un fatto del tutto chiaro. Di certo, è la sola eretica medievale condannata per le vesti che portava. Non è l’unico aspetto inusuale di una vicenda umana, religiosa, giudiziaria — e anche politica — durata complessivamente sei anni, di cui gli ultimi tre impegnati nella realizzazione delle sue profezie, anche sul campo di battaglia, e i tre mesi finali a difendere sé stessa e la propria missione davanti ai giudici. Alla fama immediata — e duratura — seguirà l’attivazione di nuovi processi nel 1450-1456 e, quasi mezzo millennio dopo, la canonizzazione avvenuta nel 1920. Al contrario di un pensare comune per cui un processo inquisitoriale è unico e definitivo, non è raro che una sentenza venga rovesciata da nuove inchieste e da un esito opposto. Nel medioevo ci sono molti esempi di santità popolare che, dopo nuove indagini (inquisitio significa genericamente inchiesta o indagine e solo per antonomasia è ciò che oggi intendiamo con il termine “inquisizione”), diventano eresie condannate. Anche in questo la vicenda giudiziaria di Jeanne d’Arc percorre vie insolite e complesse: una santità popolare diventa eresia e poi santità riconosciuta per ottenere infine il prestigioso ed eminente titolo di patrona di Francia.

Come è iniziata questa straordinaria avventura? Nel 1428 Jeanne, una “povera pastorella” sedicenne, lascia il villaggio natale di Domrémy, in Lorena, terra di frontiera tra il dominio anglo-borgognone e francese dove frequenti erano gli scontri militari, al fine di ottenere un salvacondotto per parlare con il Delfino di Francia. Scortata, a cavallo, raggiunge Chinon dove nel marzo 1429 è ricevuta da Carlo vii . Nel contesto politico-militare della Guerra dei cent’anni che contrappone le monarchie inglese e francese con l’occupazione dei territori continentali e le dilacerazioni per la successione al trono dei Capetingi, Jeanne ha un ruolo centrale. Una donna, giovane, non solo raggiunge e incredibilmente parla con l’aspirante al trono, non solo comanda un esercito vittorioso, ma diventa talmente scomoda da essere prima abbandonata (dal sostegno di Carlo vii ) e poi venduta (dal duca di Borgogna agli inglesi). Il pragmatismo politico può utilizzare, ignorare o condannare il ruolo profetico di Jeanne. La “povera pastorella” era divenuta un temibile chef de guerre, un problema politico, un pericolo religioso per la sua volontà inflessibile e per la ribellione a tutte le regole al fine di raggiungere l’obiettivo della sua missione. Se la fede in una verità irrinunciabile la rende ribelle, indocile e indomita, la profezia di cui era depositaria la proietta in un contesto politico-militare e in dinamiche a lei estranee. In quanto capo militare guida un esercito, ma senza mai uccidere un uomo; in quanto vergine (pulzella) è garante della sacralità della dinastia capetingia; in quanto depositaria di un carisma profetico “in azione” diventa travolgente. Tale fascino pieno di contrasti – quasi inverosimili – crea il suo mito chiaroscurale. Per uscire dall’impasse concettuale della contraddizione tra eresia e santità va chiarito che Jeanne non si è mai dichiarata eretica. D’altronde, nessuno nel medioevo si è mai definito tale. Solo a partire dalla Riforma questa autoidentificazione assume il carattere rivendicativo di una scelta religiosa.

Il contrasto tra due figure (eretica e santa) si collega alla documentazione sopravvissuta. I processi del 1431 la condannano per eresia, non per stregoneria, nonostante i giudici insistano per condurre l’interrogatorio in quella direzione; le testimonianze sono contro Jeanne e lei – definita “figliuola superba” per il modo in cui reagisce e risponde: non si piega alla logica giudiziaria – si difende con parole e silenzi in un confronto in cui provocazioni e consapevolezza di sé fanno emergere un temperamento non usuale. Nel 1450-1456 i procedimenti giudiziari sono a favore di Jeanne: le molteplici testimonianze di coloro che la conobbero non solo forniscono dati biografici, ma contribuiscono a corroborare una fama di santità che già circolava quando era in vita.

Le testimonianze di Jeanne rompono una tradizione per cui le donne, o meglio le cosiddette eretiche, sono rappresentate come immagine corale (negli scritti dei polemisti) o parlano poco, se non affatto (nei processi inquisitoriali). Margherita detta la bella, seguace di frate Dolcino e delle sue profezie, è una predicatrice itinerante di cui non conosciamo alcuna parola in quanto i processi sono andati perduti; Margherita detta Porete, autrice dello Specchio delle anime semplici, davanti ai giudici che la interrogano rifiuta di parlare e, disconoscendo la loro autorevolezza, potremmo dire che diventa autrice anche del proprio silenzio con cui firma la propria condanna al rogo a Parigi nel 1310. Jeanne non scrive, è analfabeta, ma detterà in termini imperiosi, ad esempio, la cosiddetta lettera agli inglesi rivolta anche al re d’Inghilterra. Al processo, invece, parla. La sua voce è chiara e coraggiosa, combattiva e lucida, reattiva e provocatoria come raramente il filtro notarile fa cogliere in altre circostanze. Ma ai giudici che la interrogano interessa un’altra voce: quella che la sostiene, guida e consiglia durante la sua entusiasmante cavalcata profetica. Ciò che per lei è forza e fede, per i giudici è sospetta stregoneria.

Lei stessa racconta che all’età di 13 anni sentì una “voce da Dio”. Era estate, si trovava nel giardino del padre ed era quasi mezzogiorno: la voce e una luce – che raramente non apparivano insieme – giungevano dalla parte della chiesa. In quel momento prese la decisione di rimanere vergine. La voce – o le voci – e la verginità sono lo scudo di protezione che i giudici, insistendo a lungo, intendono demolire. La verginità la preserva dall’accusa di provenienza demoniaca delle voci: una pulzella, una giovane vergine, non può essere creatura malefica. Ciononostante, dalle testimonianze processuali è chiaro il tentativo di trovare elementi che rafforzino tale accusa.

La tradizione e il folklore locale di un villaggio offrono lo spunto per collegare riti agresti intorno all’“albero delle signore” o “albero delle fate”, un maestoso faggio vicino a Domrémy su cui le giovani e i giovani appendevano ghirlande, a ciò che è occulto, estraneo, oscuro perché le fate sarebbero spiriti maligni. Gli inquisitori sostengono che abbia sentito la voce in quel luogo, dove di notte avrebbe ballato e cantato intorno all’albero, dopo aver appeso ghirlande, pronunciando invocazioni, sortilegi e malefici. Evidente è il riferimento all’innominato sabba. Anche alla corte del Delfino qualcuno le chiese se proveniva da un luogo chiamato Bois Chenu da cui una profezia diceva sarebbe venuta di una fanciulla che avrebbe fatto mirabilia. Successivamente, verrà accusata di possedere la mandragola e, nonostante lo avesse negato, di portarla sempre con sé per avere fortuna.

I giudici continuano a insistere sulla voce. Jeanne è restia a identificarla, ma con il procedere degli interrogatori si trova costretta a personificare: è di santa Caterina e Margherita, oltre che dell’arcangelo Michele. Sulla strada per Chinon dove voleva incontrare il Delfino, “per rivelazione” della voce aveva potuto trovare una spada sotterrata dietro l’altare della chiesa di santa Caterina di Fierbois. Ai giudici spiega che «Dio può fare rivelazioni a chi preferisce». Giunta dal Delfino svelerà i signa – di cui non riferirà mai il contenuto – mostrando un lucido senso della realtà pur nel contatto con il soprannaturale. Poi iniziano le campagne militari. L’8 maggio 1429 gli inglesi si ritirano da Orléans. È la sua vittoria più famosa dalla quale riceve l’epiteto con cui è tuttora conosciuta: Pulzella d’Orléans ossia giovane donna vergine, capo militare vincente. Il 17 luglio Carlo vii è incoronato a Reims: la sacralità dei Capetingi si lega alle profezie di una donna che gli inglesi devono condannare come strega per dimostrare l’origine demoniaca del potere regio. Ma lei si ribella a questo schema dimostrativo rimanendo fedele a sé stessa e alle sue voci.

Al culmine del successo di Jeanne, il 31 luglio 1429, un’altra donna, a suo modo una profetessa in versi dal lucido acume politico, conclude il Ditié a Jehanne d’Arc: l’ultima opera di Christine de Pizan e primo poema su Jeanne, una sorta di istantanea in 500 versi dell’entusiasmo suscitato dalla realizzazione di alcune profezie. L’appoggio di Dio alla corona di Francia attraverso Jeanne s’intreccia a profezie del passato e del presente: “che onore per il sesso femminile! (...) Nella cristianità e nella Chiesa Jeanne riporterà concordia. Ella distruggerà i miscredenti [gli inglesi] e gli eretici dalla vita ignobile, così diceva la profezia». Nel mese successivo, con la sconfitta di Parigi inizierà il suo declino che porterà, un anno dopo, alla cattura e, per uno strano destino, all’accusa di eresia. Il 24 maggio 1431 nel cimitero di Saint-Ouen, in procinto di andare sul rogo, Jeanne abiura. È l’unico cedimento di una ribelle, di una donna sola. Viene portata in carcere dove la attendono abiti maschili: simbolo ed epilogo della sua cavalcata profetica.

di Marina Benedetti
Professore ordinario di Storia del cristianesimo
presso l’Università degli Studi di Milano,
è autrice, tra l’altro, di “Condannate al silenzio. Le eretiche medievali”, Mimesis,
e ha curato “Storia del cristianesimo, II: il Medioevo”, Carocci.