Il rapporto fra calcio e cinema nelle docu-serie

La poesia del pallone
tra una selva di gambe

Una scena della fiction «Speravo de morì prima» dedicata a Francesco Totti
26 giugno 2021

Il calcio, per il cinema, non è mai stato un gioco da ragazzi: troppo abile, il primo, a sfuggire ai tentativi di cattura del secondo; piuttosto complicato “marcarne” l’impasto di tecnica, forza e velocità. L’alchimia di grazia, balistica, eleganza e geometria. Più facile, per il cinema, raccontare il calcio oltre il triplice fischio: sentimenti, glorie, relazioni e fragilità del campione. Un cloud di materiale narrativo a margine del prato verde, più docile da catturare per quelle immagini in movimento brave spesso a palleggiare col pallone per parlare dei suoi accessori — vedi il tifo — o di cose più importanti: Il mio amico Erik di Ken Loach è tra i volumi più belli di questo scaffale. Mentre lui, il calcio puro, il battito adrenalinico della partita, la fenomenologia dell’ala, del portiere o del mediano, la poesia di un pallone tra una selva di gambe, che lavoraccio per il cinema, col ridicolo in agguato nelle azioni ricostruite con gli attori. A limare questa relazione imperfetta, questa fatica comunicativa, ecco però il documentario: ponte d’incontro tra calcio giocato e sua rappresentazione sugli schermi. Specialista nel raccontare la bellezza mostrando la bellezza stessa, nell’inseguire il vero con gli strumenti del reale, sa fondere la sua sostanza principale (repertorio e testimonianze) con i segreti dell’arte di narrare per immagini: montaggio, suono, sceneggiatura, uso della voce narrante, senso dell’inquadratura. Già in passato, riavvolgendo il nastro del rapporto, il documentario aveva dato prova di affidabilità con Il profeta del goal di Sandro Ciotti, su Johan Cruyff, che partiva dalle giocate vere del fuoriclasse per arrivare al privato dell’uomo. Tutto molto semplice, eppure efficace. Anno 1976, figurarsi ora, con gli appetitosi incentivi di una tecnologia leggera che scandaglia, discreta e agile, una società sempre più abituata a filmare ed essere filmata. Con una raggiunta parità di genere tra la finzione e quel documentario in indiscutibile golden age espressiva, capace di adattarsi a schermi grandi e piccoli (di canali e piattaforme) e disponibile a contaminarsi con la finzione: a donarle il suo ingrediente base (il repertorio, appunto) per farla più credibile. Sa mettere in relazione, come già intuì Sfide su Rai3, documentale ed emozionale, dimostrando di sapersi inserire nell’altra grande novità di questi anni: la serialità (più o meno) televisiva. L’ultimo esempio, alla vigilia dell’Europeo, è la docuserie (su Rai1) Sogno azzurro: quattro puntate (disponibili su Raiplay) intorno al viaggio dell’Italia verso quest’avventura con la gente di nuovo sugli spalti. Che non significa solo la fine di un vuoto accecante («Non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto», diceva Eduardo Galeano) ma soprattutto un segnale forte di sperato ritorno al futuro, del desiderio di normalità e festa di cui anche Sogno azzurro, in qualche modo, si fa portavoce. Raccontando dieci mesi di calciatori al lavoro con lo staff, col covid addosso ma anche con un importante lavoro di gruppo, con l’amicizia e tanti dettagli da curare per arrivare all’obiettivo.

Si tocca il tema della malattia con le parole di Gianluca Vialli sul cancro: «So che per quello che mi è successo — spiega raccontando la sua esperienza — ci sono tante persone che mi guardano, e se sto bene io possono pensare di star bene anche loro». Entriamo nello spogliatoio, sediamo a bordo campo con i calciatori, ci “avviciniamo” più di quanto sia possibile fare durante le partite, seguendo la scia di altre docuserie recenti sull’accesso al dietro le quinte (e alla sua spettacolarizzazione) di atleti, squadre e allenatori noti: in All or Nothing di Amazon Prime Video si incontrano il Manchester City di Guardiola (2018) e il Tottenham di Mourinho (2020); sulla stessa piattaforma abita una recente docuserie (in due stagioni) su Sergio Ramos e su Netflix si scende in campo con il Boca Juniors (Boca Juniors confidential, 2018) e con la Juve (First Team: Juventus, 2018). Si sta accanto a Diego nella docuserie Maradona in Messico: sulla sua esperienza alla guida dei Dorados di Culiacan; si può vedere Sunderland Til I die, sulla stagione 2017-18 che seguì quella della retrocessione della squadra inglese dalla Premier League. Su Tim Vision, poi, dal gennaio scorso, è arrivata Uniche: le storie, le emozioni, il lavoro e il talento delle calciatrici del campionato di serie a femminile. Sei puntate su un mondo da scoprire di donne forti, ottime atlete ben capaci di testimoniare l’essenza di questo sport, di fungere, col loro racconto, da solidi mattoni per il ponte comunicativo tra calcio e sua narrazione per immagini. Unendo muscoli, mente e mondo interiore, partecipano alla comunicazione di questo gioco al pari di documentari recenti su stelle del pallone come Messi (il film omonimo è di Alex de la Iglesia, 2015) Maradona (i documentari di Kusturica e Asif Kapadia), Gascoigne (documentario omonimo su Amazon Prime Video), Ibrahimovic (Becoming Zlatan, su Raiplay) e ancora, tra gli altri, Griezmann (È nata una leggenda, 2019, Netflix), Totti (Mi chiamo Francesco Totti, 2020), Pelé (Il re del calcio, Netflix, 2021), fino al meno recente, sperimentale, quasi video arte, Zidane di Zidane, un ritratto del xxi secolo, con il fuoriclasse inquadrato da diciassette telecamere nella stessa partita, in un racconto concentrato unicamente sul giocatore. Al contrario di Alexis Viera: Una storia di sopravvivenza, (Netflix, 2019), sul portiere uruguaiano Alexis Vieira ferito in una rapina in Colombia e costretto, secondo i medici, a non poter più camminare. Invece ora, con fatica e sacrificio, Vieira si alza e porta avanti la sua scuola calcio per bambini nati in aree povere. A testimonianza che il documentario sa percorrere il campo ma anche uscire, e perciò sta guadagnando tanto spazio nel racconto del calcio. Al punto che un film tutto di fiction come Il divin codino su Roberto Baggio (Netflix dal 26 maggio scorso), suona addirittura insolito, seppure esistano recenti serie (fiction) come The English game (Netflix, 2020), sugli albori del calcio in Inghilterra e quindi inevitabilmente storica, o come Apache, la vita di Carlos Tevez (Netflix, 2019), sulla difficile infanzia dell’attaccante argentino. O come Speravo de morì prima, su Francesco Totti (Sky 2021), che però, quando si tratta di mostrare i goal e le giocate del campione, per non rischiare nulla chiede aiuto ai repertori originali.

di Edoardo Zaccagnini