La chiesetta nascosta e disadorna di San Tommaso in Parione

Dove san Filippo
diventò prete

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26 giugno 2021

San Tommaso in Parione è una delle tante chiese del centro che rischiano facilmente di passare inosservate. Anche perché chi le transita accanto percorrendo la strada su cui s’affaccia, ha il passo, lo sguardo e la curiosità quasi sempre proiettati a un centinaio di metri più avanti, verso Santa Maria della Pace, gioiello del Rinascimento e del Barocco traboccante di grandi nomi — Raffaello, Maderno, Pietro da Cortona, Antonio da Sangallo il Giovane, Bramante, tra gli altri. San Tommaso invece non vanta alcun palmares di artisti celebri che se ne siano presi cura nel tempo. Se ne sta appartata e silenziosa su via di Parione, che è il nome del rione d’appartenenza. L’ingresso è quasi sempre chiuso e nascosto dai numerosi motorini parcheggiati davanti.

Eppure questa chiesetta ha un’origine molto antica, risalente almeno al xii secolo, perché nel 1139 se ne registra la consacrazione da parte di Innocenzo ii (e si tratta della prima attestazione della sua esistenza). Può rivendicare anche un certo lustro, visto che nel 1449 fu dichiarata sede dell’importante Congregazione dei Copisti e degli Scrittori, e che nel 1517 fu innalzata al grado di titolo cardinalizio da Leone x . Tra l’altro, fra le sue mura, nel 1639 si celebrò il matrimonio di Gian Lorenzo Bernini con la bella e giovane Caterina Tezio. Eppure oggi sembra dimenticata da tutti. O quasi.

Proprio qui, quattrocentosettant’anni or sono, fu ordinato sacerdote Filippo Neri. Era il 23 maggio 1551, e il trentaseienne fiorentino, a Roma da più di quindici anni, era già molto conosciuto in città. L’aveva girata in lungo e in largo, prendendosi cura dei pellegrini e fondando una confraternita dedicata ai viandanti bisognosi, lavorando con i poveri nell’Oratorio del Divino Amore e con i malati negli ospedali di San Giacomo e di Santo Spirito, facendo amicizia con i giovani impiegati nelle ricche — e spesso usuraie — imprese commerciali del quartiere dei Banchi, recandosi di notte fuori porta a pregare nelle buie catacombe di San Sebastiano…In questo suo inoltrarsi «per il dedalo delle strade romane con l’aria di non aver mai altro da fare, si mescola familiarmente a non importa qual gruppo, sempre pronto a unirsi a una partita di piastrelle, o a fermarsi in una qualsiasi bottega…»: così scrive il teologo Louis Bouyer nella sua breve e bella biografia del santo (La musica di Dio, Jaca Book, Milano 1980), nella quale, commentando i primi incontri di Filippo con la gente di Roma, osserva che «il suo contatto elettrizzava le coscienze più indolenti. Una scossa le sottraeva al loro letargo. E un incantesimo le aggregava alla brigata gioiosa che partiva in pellegrinaggio come si va a una partita di piacere». Bouyer spiega come “Pippo buono” non «insegni alcuna dottrina particolare, non imponga alcuna pratica speciale. Egli non ordina nulla; è già molto se suggerisce. Ma senza che abbia bisogno di incitare, se non attraverso una facezia il cui senso a tutta prima può sfuggire, non è possibile vivere qualche tempo con lui senza divenire diversi da quelli che si era…».

Filippo non pensava affatto di farsi sacerdote. Temeva forse che, entrando «in una cornice precostituita», spiega ancora Bouyer, avrebbe perso un po’ della sua amatissima libertà. Certo, era anche per umiltà e per un senso di profondo rispetto per gli ordini sacri che non metteva in conto per sé il sacerdozio. Ma il suo amico prete e confessore Persiano Rosa, osservando quanto per grazia di Dio stava accadendo nella vita di quell’uomo e di chi lo incontrava, a un certo punto gli domandò a bruciapelo: «Cosa aspetti a diventare prete?», e contestualmente a rassicurarlo circa i suoi infondati timori.

Così Filippo, nel 1551 entra in San Tommaso in Parione, dove a marzo gli vengono conferiti la tonsura, i quattro ordini minori e il suddiaconato. Poi, sempre in questo edificio oggi quasi dimenticato, dopo il diaconato ricevuto in San Giovanni in Laterano, viene ordinato sacerdote. All’interno, una lapide settecentesca ricorda l’evento. E un affresco un po’ sbiadito del xix secolo sulla parete sinistra dell’abside lo raffigura in piedi con le mani giunte in preghiera.

Il giovedì e la domenica, San Tommaso in Parione apre le sue porte alla comunità dei cattolici eritrei che si ritrovano qui per pregare insieme e celebrare la messa nel rito Ge’ez. È la loro chiesa nazionale dagli anni Ottanta del secolo scorso. Entrando, non si può non fare caso alle grandi macchie di umidità sparse un po’ ovunque, all’intonaco rovinato sulle pareti spoglie, alle decorazioni del soffitto rese quasi invisibili dal tempo, alle nicchie vuote e grigie che in passato hanno ospitato quadri oggi andati perduti.

Chissà che non si possa fare qualcosa per fermare tale progressivo degrado. Sarebbe bello poter tornare ad accorgersi anche di questa chiesetta disadorna, dove quattrocentosettant’anni fa Pippo buono diventò prete inginocchiandosi davanti al Signore, che sta sempre là, anche oggi.

di Paolo Mattei