Il restauro (in tempo di covid) della pala d’altare di San Giacomo il Maggiore a Roma

Un lavoro di squadra
che resterà nel cuore

L’opera restaurata (foto Zeno Colantoni)
25 giugno 2021

Un restauro è esso stesso un’opera d’arte. Quando poi viene realizzato in tempo di covid, con tutti i pesanti condizionamenti legati a tale emergenza, l’evento acquista una rilevanza ancora più pregnante. E a processo concluso, il merito anzitutto di chi ha coordinato il restauro è ancor più degno di lode. Va dunque tributato un riconoscente plauso a Giulia Silvia Ghia, responsabile del restauro della grande pala d’altare realizzata da Francesco Romanelli nella chiesa di San Giacomo il Maggiore alla Lungara, a Roma. Come spiega ella stessa, presidente di Verdemare progetto cultura, (che sulla rivista «Artribune» ha scritto un esauriente articolo dedicato all’”impresa”) la pala d’altare era pressoché illeggibile. «Strati di sporco, ridipinture e ritocchi invadenti ed alterati ne oscuravano la cromia» afferma la coordinatrice del restauro che aggiunge: «Tale era la stratificazione degli interventi effettuati da rendere necessaria una complessa fase di analisi e ricerca svolta su alcune porzioni di affresco per individuare i materiali costitutivi e comprendere meglio la tecnica esecutiva di Romanelli, che si è rivelata estremamente rapida e di grande qualità».

I dodici metri quadrati di affresco sono stati eseguiti in soli sette “momenti di lavoro”, ovvero “un gioco da ragazzi” per le capacità dell’artista viterbese. Partendo dall’alto e procedendo verso destra, come da prassi, Romanelli, su uno strato di intonaco, ha riportato il disegno preparatorio, utilizzando le incisioni, quindi sulla porzione del “momento di lavoro” ha steso un velo di calce, sulla quale ha applicato le stesure di colore, meno sovrapposte per le vesti, su cui ha lasciato volutamente a vista lo strato bianco. Su questi ha continuato a lavorare fino alla completa asciugatura, rendendo quindi meno carbonata la superficie degli ultimi strati, che sono risultati più fragili ed anche più danneggiati. Lo studio e i saggi eseguiti hanno consentito di mettere a punto le corrette miscele con le quali eseguire la pittura. «Ogni intervento — dichiara Silvia Ghia — è frutto di un lavoro di squadra, ed anche per questo è stato così. Il progetto è stato infatti ideato, curato nelle sue fasi di autorizzazioni e coordinato dall’associazione Verderame progetto cultura, che ne ha sostenuto i costi, realizzando anche una campagna di crowfunding sulla piattaforma “Eppela” per garantire una partecipazione dal basso». Ma soprattutto l’associazione ha messo in campo un progetto, oltre che di recupero, di valorizzazione dell’intero quartiere di Trastevere dove la chiesa sorge, attraverso un piano di comunicazione strutturato con video alla scoperta del territorio, articoli e “pillole informative”, che hanno accompagnato l’intervento di restauro creando un fruttuoso collegamento tra il passato e il presente».

Seguito in tutte le sue fasi da Alessandro Acconci ed Eleonora Leprini, funzionarie della Soprintendenza speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, eseguito dalle restauratrici Valentina White, Lucia Morganti e da Zeno Colantoni, fotografo d’arte, questo recupero conservativo è stato il frutto di una vera e propria sinergia, grazie al lavoro di una squadra animata da sincera passione. Un lavoro, sottolinea, con una vena di commozione, Giulia Silvia Ghia, che «ci resterà nel cuore».

di Gabriele Nicolò