L’elaborazione del lutto nel cinema

Applausi e orsacchiotti
per dimenticare

Una scena del film «Coco» diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina (2007)
25 giugno 2021

Pubblichiamo stralci della prefazione al libro «Oltre la notte. La perdita e il lutto nel cinema» (Cantalupa, Effatà editrice, 2021, pagine 102, euro 15) a cura di Tiziana Vox, con contributi di Vittorio Lingiardi.

E poi venne il tempo del covid-19. Vale a dire, la tempesta assoluta che ha colpito, nel corso dell’anno del Signore 2020, prima la Cina e poi il resto del pianeta: non solo recidendo bruscamente innumerevoli vite umane abbandonate a una solitudine infinita proprio nel tempo del loro venir meno, ma anche consegnandoci — ben al di là dell’esito di una pur drammatica emergenza sanitaria — a un’incertezza angosciante per il futuro, individuale e collettivo(...) Si è ripetuto, a buon diritto: defunti che se ne sono andati senza una stretta di mano, senza una preghiera, senza poter fruire di una rielaborazione collettiva del lutto. Tutto vero, ma mi chiedo se quanto accaduto non potrebbe risultare un’occasione preziosa per ripensare daccapo la nostra ritualità nell’arte, difficile, del congedo (e quando dico nostra, alludo sia a quella religiosa sia a quella civile), con l’obiettivo di renderla eloquente per chiese, comunità di fede e società prive di memoria e incapaci di produrre germi di futuro, asserragliati come siamo nel nostro piccolo hic et nunc (...) fino al paradosso della celebre cittadina sarda di Porto Cervo, borgo marino e principale centro della Costa Smeralda eppure privo di cimitero: inaugurato negli anni Sessanta del secolo scorso come spazio di divertimento per eccellenza, non vi si prevede neppure l’eventualità di avere a che fare con la morte e con i morti. (...) Il monopolio religioso nella cultura delle esequie si va progressivamente erodendo, a favore di una professionalizzazione e una privatizzazione dei cerimoniali inerenti al fine vita, con l’allargamento a macchia d’olio delle case del commiato o funeral-home, mentre sulle tombe la classica simbologia cristiana è di frequente accompagnata o sostituita da altre, provenienti da una generica religiosità naturale. E durante i funerali si applaude al defunto, scorrono le sue immagini video, non si è più in grado di abitare il silenzio e il vuoto; mentre è evidente che la gestione della morte ha un grande bisogno di tradizione, di una nuova e rinnovata ars moriendi di cui oggi non si percepiscono per nulla i lavori in corso. Così, si fugge davanti agli stessi riti e simboli funerari, sostituiti da pratiche sempre più spersonalizzate, prodotte in serie, addolcite dalla rappresentazione kitsch di una falsa personalizzazione: rappresentazione sempre uguale, rassicurante, autoritaria nel lessico e nei gesti rituali ossessivamente ripetuti (gli angeli, gli orsacchiotti, gli applausi).

In effetti, nel complesso, le forme dei rituali etico-civili che accompagnano morenti e defunti sono in rapidissima trasformazione. (...)

Passaggi non da poco, se consideriamo che — da sempre, si può dire — nella loro comprovata abitudine a gestire sapientemente il rapporto con la morte e nell’apertura agli scenari dell’aldilà le religioni hanno trovato il loro ambito naturale e la loro ragion d’essere più profonda. La prospettiva da cui muove ii progetto che qui trova un punto fermo, del resto, non è quella del memento mori, quanto piuttosto della meditatio vitae, che ha come maestri Agostino, Cartesio, Spinoza, Derrida, Foucault: «La sapienza è meditazione non della morte ma della vita» (Spinoza). E se la società contemporanea aveva confinato la morte e il lutto nella sfera del privato, l’emergenza pandemica li ha riconsegnati alla dimensione collettiva: e in forma tanto più drammatica, in quanto, com’è noto, è stata negata la possibilità di celebrare i funerali. Ecco perché considero un’operazione importante e ambiziosa, quella di questo libro. Ricercare le tracce della perdita e del lutto nel cinema degli ultimi decenni, soffermandosi in particolare su autentici maestri della macchina da presa quali Bergman, Pasolini e Malick, ci aiuta infatti a cogliere il bisogno di cui sopra, e a intuire che esiste un luogo artistico (non l’unico, beninteso) in cui quegli argomenti di confine stanno trovando spazio, e linguaggi eloquenti.

Per quel che mi riguarda aggiungo il riferimento a una pellicola al di fuori di quelle qui analizzate, che mi ha colpito per l'efficacia e la sensibilità con cui vi si affronta il tema, delicatissimo, in questione.

Il riferimento è al film del 2008 del regista giapponese Yojiro Takita, Departures, vincitore l'anno seguente dell’Oscar per la migliore pellicola straniera. Il protagonista è un giovane violoncellista che, improvvisamente licenziato dall’orchestra in cui suona, si mette alla ricerca di un altro posto di lavoro. Quando legge, durante i suoi tentativi, un annuncio sul giornale, rimane sedotto dalla parola partenze e si illude di candidarsi per impiegarsi in un’agenzia di viaggi. In realtà, si tratta di una ben diversa tipologia di partenza, quella per il cimitero, di fronte alla quale, in un primo momento, prova un misto di imbarazzo e vergogna, tanto da nascondere alla moglie la sua nuova occupazione, che nel frattempo ha deciso di accettare. Il rito della tanatocosmesi — detto nokanshi — è una tradizione giapponese, una modalità preziosa per dare l’ultimo saluto al defunto: la pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime, simboliche carezze fatte alla persona cara, prima di lasciarla andare via per sempre. Nell’equivoco di significati metaforici è racchiuso il messaggio di Departures: la morte va considerata un commiato ma anche una nuova nascita, più che un semplice, freddo passaggio a un mondo altro e sconosciuto. In questo senso, il rito del nokanshirappresenta il bisogno di prepararsi alla dipartita, mettendo in scena una liturgia laica, utile soprattutto a chi rimane, per impossessarsi di un’estrema, delicata riconciliazione con il defunto; ma è altresì una profonda e originale riflessione sull’opera di misericordia del seppellire i morti (una delle sette opere di misericordia corporale della tradizione cristiana), e sul rapporto capitale che intercorre tra le generazioni, fra le quali si apre così un varco per un’inedita forma di relazione.

Nel finale del film, i vecchi rancori fra il protagonista e il padre ormai defunto finalmente vengono messi da parte, mentre la voglia di pace trova il giusto spazio e il modo più corretto per esprimersi.

Guardare un film, aprirsi all’ipotesi di lavoro che in genere vi è sottilmente racchiusa, mettersi in gioco: questa la proposta di pagine, quelle che seguono, che restano aperte al nostro personale contributo (unico, come ciascuno di noi è unico e irripetibile).

Non solo, ed è persino banale, perché non possiamo fare altro (ma in realtà, come si sa, continuiamo ad arrabattarci a fare altro...), ma perché questo è ciò che, alla fine, ci rende pienamente umani: parola semplice da utilizzare ma che cela un progetto complesso, complesso come imparare a guardare dentro noi stessi, ospiti di una terra che altri ci hanno lasciato in eredità e che ora anche noi siamo destinati a lasciare ad altri.

Come accettare la nostra costitutiva fragilità. La nostra vulnerabilità. La nostra mortalità. Fare i conti con esse non solo quando ci si presentano davanti nelle occasioni più disparate (e disperate).

di Brunetto Salvarani