Una nuova traduzione di «Memorie dal sottosuolo»

L’epifanica epopea
dell’anti-eroe

 L’epifanica epopea dell’anti-eroe  QUO-138
21 giugno 2021

Il sottosuolo di Dostoevskij è stato indagato e sminuzzato in tutta la sua complessità: la nuova edizione, tradotta e curata da Serena Prina, delle Memorie dal sottosuolo (Vicenza, Neri Pozza, 2021, pagine 192, euro 14,50, traduzione di Serena Prina) mostra come questo racconto possegga ancora possibilità di proliferare senso, cosa che accade a quelle opere che travalicano i tempi. Perché il concetto di universalità, che avrebbe fatto inorridire la critica legata a remore deterministiche, è tutt’altro che un residuo irrazionale: la cultura contemporanea, e lo stesso Freud, non sarebbero stati così affascinati da un’opera che negli anni Sessanta dell’Ottocento ha ricollocato le basi della modernità.

La riflessione sulle proprie inespugnabili contraddizioni, la radicale incapacità di portare a termine qualsiasi progetto e la conseguente inazione — che troverà poi nell’Uomo senza qualità di Musil la sua incarnazione più profonda — la frammentazione dell’identità che il Pirandello di Uno nessuno e centomila porterà a conseguenze estreme, la coscienza di inettitudine fatta propria da Borgese, Svevo e Tozzi, la pulsione verso la morte in Michelstaedter, lo sdoppiamento in Stevenson hanno radici complesse e che vengono anche da lontano, ma che trovano in queste Memorie un punto di geniale rielaborazione.

È vero che il personaggio “al negativo” viene da lontano e che Don Chisciotte era già apparso come nuovo anti-eroe che segnerà la letteratura moderna, ma nelle Memorie fanno capolino il Lucifero di una coscienza ipertrofica e quella «condanna alla contemplazione del proprio fallimento» di cui parla nella postfazione Serena Prina, che porranno l’autoconsapevolezza come nuovo viaggio agli Inferi. Questo è l’elemento fondante, il discrimine netto tra il prima e il poi della riflessione letteraria.

Cerchiamo di chiarire meglio il concetto: in quegli anni e sempre in Russia Tolstoj poneva la questione della funzione dell’intellettuale, e la risolveva nel lungo cammino della rinuncia al ruolo sociale e alla rifondazione attraverso anche il cammino di fede di una coscienza nuova, sociale, aperta all’altro. Anche Dostoevskij compirà un cammino di rifondazione, ovviamente in modo diverso dall’autore di Guerra e pace. Ma c’è da chiedersi perché sarà l’estensore delle Memorie a costituire l’ingrato compito di origine per quella che è stata chiamata, con una notevole ma fortunata imprecisione, letteratura decadente, e la riposta sta proprio in quelle Memorie. Perché, a leggerle ancora oggi, vi si trova tutto quello che pur venendo anche da un prima, diventerà il dopo della lacerazione, del vuoto esistenziale, del dolore di non poter agire come si vorrebbe, in poche parole di quella alienazione che esattamente un secolo più tardi verrà riscoperta dal pensiero critico neo-marxiano.

È un’opera che vive di una sua vita propria, perché assume una sua identità a prescindere dal dopo 1864, anno della pubblicazione in due puntate sulla rivista «Epoca». È un punto insieme di partenza e di non ritorno. I personaggi di Tozzi, Camus, Kafka, Pirandello, Joyce, Svevo, Thomas Mann e di tanti altri probabilmente non ci avrebbero parlato tra le pagine dei libri senza quelle Memorie. Perché è lì che appare la coscienza della copresenza del bene e del male, non nella teoria dottrinale, ma dentro la reale vita di un anti-eroe del nostro tempo, se volessimo rimanere in Russia con Lermontov. Perché emerge la consapevolezza del rischio di una riflessione esasperata che impedisce ogni movimento e che porta all’inazione, alla rinuncia (capovolgimento chissà quanto parodico della noluntas di Schopenhauer) e all’inferno.

Quello che colpisce ancora oggi è la spietata analisi dell’incapacità di amare che viene dalle radici nefaste — e da Dostoevskij irrise — di un romanticismo fine a se stesso che vede nel desiderio in sé l’inizio e la fine di ogni relazione, ma anche dal materialismo di alcuni circoli progressisti, che razionalizzava ogni umana cosa, fino a renderla un’equazione algebrica. Si tratta non solo e non tanto di un attacco difensivo e conservatore, come taluni hanno interpretato. Un critico del concetto di modernità come Antoine Compagnon ha messo in guardia dalla linearità apparente del concetto di progressista-reazionario, e questo avvertimento vale anche per il russo, che ha scardinato la tradizione dell’azione eroica o della contemplazione fine a se stessa, rilevando tutte le contraddizioni della semplificazione narrativa.

La rinuncia finale all’amore e della redenzione di Liza è una pagina radicalmente nuova nella letteratura del tempo. Lo svelamento a se stesso delle proprie fobie, delle contraddizioni, delle viltà, dei pregiudizi e del supposto sapere quello che avverrebbe se si agisse, è qualcosa di sconvolgente e che pone l’untergrunt non più solo come rischio, ma come realtà. La scelta del bene è anche la capacità di andare oltre il vecchio sé, di spogliarsi dell’armatura che invece di difenderci è divenuta una prigione, e di accettare nuove sfide. Quello che faranno alcuni personaggi di Fëdor Dostoevskij, scegliendo eticamente, e non solo emotivamente, una strada nuova.

di Marco Testi