Nella parrocchia di San Frumenzio

Una famiglia
da accogliere in famiglia

A Syrian refugee family from Aleppo, stay under a shelter during a rainy day on March 8, 2014, at ...
19 giugno 2021

«Pensavo che la mia vita fosse finita. Avevo perso la mia famiglia, la mia casa. Poi è cambiato tutto. Mario e Livia ci hanno salvato». Ahmed (nome di fantasia) ha parole di affetto e riconoscenza per la coppia che, da due anni, si occupa di lui, di sua moglie Sara e dei loro due bambini, Saief e Saja, di 7 e 3 anni. Tutto comincia il 6 settembre 2015 quando Papa Francesco invita le parrocchie e le comunità religiose ad accogliere richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale in preparazione del Giubileo della Misericordia. Partendo dalle parole del Papa, la Caritas di Roma avvia l’esperienza di accoglienza diffusa per persone migranti, che prevede un percorso che va dall’assistenza alla completa autonomia, attraverso l’insegnamento dell’italiano, l’inserimento scolastico e universitario e la formazione professionale. All’iniziativa, che verrà rinnovata il 20 giugno prossimo in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, hanno aderito 43 comunità parrocchiali e 3 famiglie che, in questi anni, hanno accolto e integrato un totale di 246 rifugiati.

S. Frumenzio, nel quartiere Nuovo Salario, è una delle parrocchie che ha raccolto l’appello del Papa mettendo a disposizione un alloggio. «In realtà, il servizio di accoglienza esisteva già da prima ma l’iniziativa del Papa è servita a potenziarlo e a dare ulteriori stimoli all’operato della parrocchia. Io mi sono trovato a partecipare per caso», racconta Mario che, dopo la conversione, avvenuta otto anni fa, ha cambiato radicalmente vita. «Prima facevo cose un po’ scorrette e adesso no», dice, descrivendo icasticamente in una sola frase le due fasi della sua esistenza. «Avevo ripreso a frequentare la chiesa e partecipavo al laboratorio per la preparazione alla cresima. Proprio nel 2015, il parroco, don Daniele Salera, mi propose di occuparmi dei profughi. Ero sorpreso, quella era l’ultima cosa a cui avrei pensato, visti i miei trascorsi poco solidali verso i migranti, ma ci ho riflettuto. Se lui me lo proponeva, evidentemente credeva che lo potessi fare. Ne ho parlato con Livia, che ha detto subito di sì. Lei è stata fondamentale in questa avventura». Così, il servizio di Mario e Livia, titolari di un negozio di scarpe e con due figli già grandi, comincia. Nel corso di questi anni, nella parrocchia si sono avvicendati sette ospiti provenienti da vari paesi: Siria, Mali, Cina, Colombia, Egitto, Etiopia. Nel 2019, è arrivato Ahmed con la sua famiglia e una storia drammatica alle spalle, come quella di tanti altri. «Siamo fuggiti dall’Iraq nel 2014», racconta Ahmed, 29 anni, seduto sulla poltrona della bella casa di Mario e Livia, nei pressi della parrocchia S. Frumenzio. Sara, 27 anni, è seduta vicino a lui e i due bambini giocano rincorrendosi nelle stanze dell’appartamento. I continui scontri fra le diverse milizie politico-religiose e le persecuzioni delle minoranze rendono instabile e insicuro il paese e, così, Ahmed, che pure lavorava, e Sara, sposati e con un bambino di un anno, decidono di partire per la Svezia, dove vive uno zio del ragazzo. Lo fanno nell’unico modo possibile, affidandosi ai trafficanti di esseri umani. Quattromila dollari per tutta la famiglia. La prima tratta fino a Istanbul su due furgoni, uno per gli uomini e uno per donne e bambini: «Eravamo in 45, tutti ammassati, non c’erano finestrini e non si respirava», dice Ahmed. Poi su un aereo fino a Smirne e da lì su una barca per la Grecia. «Una volta arrivato ho aspettato mia moglie ma poi ho saputo che a Smirne era stata bloccata dalla polizia insieme a tutte le altre donne e rimandata in Iraq». Senza perdersi d’animo, Ahmed prosegue il viaggio. A piedi, insieme a una fiumana di gente. Per arrivare in Austria impiega diciotto giorni. Anche questo percorso è controllato dai trafficanti, per cui il ragazzo è costretto a pagare 1.500 euro prima e altri 800 poi per un biglietto aereo per la Svezia, dove viene accolto dallo zio. Poco dopo viene a sapere che la sua famiglia era stata sterminata e la casa bruciata. Se non fosse fuggito sarebbe toccato anche a lui. Nel frattempo, Sara si trova di nuovo in Iraq. «Sono tornata a casa di mio padre dove sono rimasta per un anno ma vivevo nella paura costante che succedesse qualcosa. Allora mio padre prese la decisione di vendere una casa che avevamo per darmi i soldi che servivano per raggiungere mio marito. Un giorno telefona qualcuno interessato all’alloggio, mio padre va all’appuntamento e non torna più. L’avevano ucciso. Era una trappola». La ragazza, terrorizzata, si chiude in casa per un mese, il tempo necessario per ottenere, tramite un vicino di casa, un passaporto. Vende i gioielli di famiglia e, attraverso Ahmed, che guida i suoi passi da lontano, prende un aereo per Stoccolma, con scalo a Milano, dove le prendono le impronte digitali. Nella capitale svedese la vita sembra scorrere normalmente. Il ragazzo fa il pizzaiolo, con un regolare contratto di lavoro, e Saief va all’asilo. Ma la situazione legale della coppia nel Paese non è regolare. La domanda di asilo che Ahmed continua a presentare viene regolarmente respinta. Una sera di cinque anni dopo, la polizia va nella loro casa e intima all’uomo di tornare in Iraq e a Sara di andare in Italia, in quanto Paese di prima accoglienza. I pianti e le proteste, anche di Saief che, in svedese, prega i poliziotti di lasciarli stare, non servono a nulla. Ahmed viene messo in prigione e Sara espulsa, insieme a Saief e a Saja, nata nel frattempo, di appena 8 mesi. I tre vengono reclusi in un Cie (Centro di Identificazione e Espulsione) di Roma e solo dopo un po’ riescono a ricongiungersi con Ahmed che, dopo la prigionia, aveva raggiunto l’Italia in treno. «Il Cie ospitava 150 persone ed era sporchissimo, pieno di pidocchi e pulci che si attaccavano ovunque e non ti lasciavano dormire la notte. Mancava l’acqua e quando c’era era fredda», raccontano i ragazzi. Dopo qualche settimana, grazie alla Caritas, la famigliola viene accolta nella parrocchia di S. Frumenzio e tutto cambia. Era il 28 marzo del 2019. «Quando abbiamo visto la casa non riuscivamo a credere che fosse tutta per noi», racconta Sara. «Davvero possiamo lavarci? Possiamo cucinare?, chiedevamo. Sono stati tutti veramente gentili, gli operatori della Caritas, il parroco, i volontari. Uno di loro mi ha accolto con un mazzo di fiori. Eravamo commossi. Stiamo imparando molto da loro, un giorno voglio fare anch’io la volontaria». Livia si era già occupata di tutto, la piccola Saja era stata inserita in un nido e Saief in prima elementare. «Il nostro è un servizio a 360 gradi. Aiutiamo le persone a orientarsi e nelle prime necessità ma l’obiettivo è quello di renderle autonome», spiega Livia. «Per loro è importante avere un punto di riferimento, una parola di conforto, un consiglio. Sanno che noi ci siamo sempre e che possono chiamare a ogni ora del giorno e della notte. È impegnativo, ma la fede ci sostiene». Ora Ahmed lavora come ausiliario in un ospedale della capitale e Sara, seppur diplomata nel suo paese, ha dovuto ricominciare da capo e, proprio in questi giorni, ha ottenuto la licenza media. Non sono più a S. Frumenzio ma in una struttura gestita dal Centro Astalli. Per loro è iniziata la fase di semi autonomia. Il rapporto con Mario e Livia, tuttavia, non si è interrotto. «Non smetteremo mai di occuparci di loro. Si è creato un legame inscindibile», afferma Mario che, da questa esperienza, ha tratto nuovi frutti. «Il volontariato ti apre a quella che è la vera essenza del cristianesimo: amare gli altri come te stesso e dare la vita per il prossimo. Livia e io abbiamo vissuto una crescita spirituale immensa». «Noi non possiamo lasciarli», rincalza Ahmed. «Sono i nostri secondi genitori, la nostra famiglia. Se non li vedo per tre giorni sto male. Il mio cuore è troppo piccolo per contenere tutto l’amore che ho per loro». Saief, finita la scuola, andrà al centro estivo. Per lui non è stato facile. Ha vissuto il travaglio dei vari spostamenti e le separazioni dal suo papà, che non riconosceva più. I ricordi lo tormentavano. Una volta, in classe, gli hanno dato una foto di Leonardo da Vinci e lui l’ha colorata tutta di nero, in preda a chissà quali incubi. Ora è vivace e allegro. Dopo lo svedese ha imparato bene anche l’italiano. Tifa Lazio, casualmente come Mario, il «nonno», sostenitore sfegatato della squadra biancoceleste, ma «pure la Roma è forte». Per quanto, anche la Juve non è male. «Mi piace la squadra che vince», dice il piccolo saltellando sulle gambette magre, risolvendo abilmente il conflitto. Chiuso l’argomento. Passiamo ad altro.

di Marina Piccone