L’irrisolta crisi
della minoranza etnica
dei rohingya

A Rohingya refugee carries her belongings to a temporary shelter after a fire destroyed a Rohingya ...
18 giugno 2021

Permane irrisolta la crisi dei rohingya, la minoranza etnica musulmana del Myanmar costretta alla fuga dalle ripetute violenze dei militari governativi.

La questione è stata discussa recentemente a Dacca dal primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, che ha ricevuto il presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Volkan Bozkir. Il funzionario del Palazzo di Vetro ha espresso apprezzamento per la generosità con cui il Bangladesh ha accolto centinaia di migliaia di rifugiati, mentre Hasina ha manifestato preoccupazione per l’incertezza della situazione, «dovuta agli sviluppi in Myanmar». Il riferimento è al golpe militare dello scorso primo febbraio.

Il primo ministro ha ricordato che era stato avviato un dialogo con le autorità di Naypyidaw con «piccoli progressi», ma che ora, dopo la presa del potere in Myanmar da parte dei generali, il processo di rimpatrio «è diventato incerto».

La fuga dei rohingya risale a fine agosto del 2017, quando nello Stato occidentale del Myanmar del Rakhine si scatenarono scontri armati e inaudite violenze ai danni dei civili, dopo una serie di attacchi da parte di combattenti islamici contro diversi avamposti della polizia. Le forze dell’ordine reagirono immediatamente, innescando una vasta operazione di rastrellamento contro la minoranza musulmana. Si stima che quasi 900.000 rifugiati rohingya — considerati dall’Onu una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo — siano stati costretti a lasciare il Rakhine. Secondo l’Unhcr, nei loro confronti è in atto un vero e proprio «genocidio».

Il Bangladesh ospita attualmente il più grande accampamento di profughi del mondo, formato da 34 campi nel distretto di Cox’s Bazar. Ai rifugiati degli insediamenti di Cox’s Bazar si aggiungono quelli al di fuori dei campi, ospiti delle comunità locali. Vittime di omicidi di massa, stupro, tortura e distruzione sistematica delle case e dei luoghi culturali nel Rakhine, l’80 per cento dei rohingya accolti in Bangladesh sono soprattutto donne e bambini. Ma le condizioni di vita sono ormai insostenibili e i livelli di malnutrizione elevati.

A causa del sovraffollamento, l’acqua potabile e il cibo scarseggiano, mentre la situazione igienico-sanitaria si deteriora di giorno in giorno. Migliaia di famiglie, compresi i bambini, dormono all’aperto o in fatiscenti baracche di cartone. E il covid-19 ne ha peggiorato le condizioni di vita, rendendo l’accesso ai servizi ancora più difficoltoso.

Nel novembre del 2017 il Bangladesh ha firmato un accordo di rimpatrio con il Myanmar. L’Unhcr e l’Unpd, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, hanno sottoscritto nel giugno del 2018 un protocollo d’intesa con il Governo di Naypyidaw (ora soppiantato dai militari golpisti) per stabilire una road map per il rimpatrio su base volontaria dei profughi, concedendo un anno di tempo, prorogato a maggio del 2019 per altri dodici mesi.

Dacca ha fornito all’Unhcr una lista di nomi verificati da Naypyidaw nell’ambito del Gruppo di lavoro congiunto sul rimpatrio e autorizzati a fare ritorno nel Rakhine. Tuttavia, a causa dell’incertezza sui diritti di cittadinanza, libertà di circolazione e uso della terra (per il Myanmar i rohingya sono immigrati irregolari e non rientrano ufficialmente nelle 135 etnie che compongono il Paese), il processo di rimpatrio non è stato ancora avviato: due tentativi, il primo nel novembre del 2018 e il secondo nell’agosto del 2019, sono falliti. I colloqui si sono poi bloccati per quasi tutto il 2020 a causa della pandemia di covid-19 e delle elezioni legislative in Myanmar, il cui esito — la netta vittoria della Lega nazionale per la democrazia, il partito del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi — ha indotto i militari ad effettuare il colpo di stato, arrestando il presidente, Win Myint, e la stessa Suu Kyi.

Con il golpe in Myanmar, i colloqui per i rimpatri si sono interrotti del tutto. L’ultima riunione dell’apposito comitato di lavoro bilaterale si è svolta il 19 gennaio scorso, mentre quella successiva, prevista il 4 febbraio, è saltata.

di Francesco Citterich