Africa, vittima
delle diseguaglianze

Children play during the visit of the Emir Djibril Diallo, chief negotiator in the talks between the ...
18 giugno 2021

L’Africa ha estremo bisogno di solidarietà, soprattutto in questo tempo di pandemia. L’abbiamo scritto tante volte in questi mesi e la sensazione è che non vi sia da parte dei Paesi donatori quella consapevolezza necessaria per scongiurare il peggio. Basti pensare che nel corso del 2020, secondo il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), sette milioni di persone sono morte in Africa per inedia e, qualora la pandemia dovesse procrastinarsi nel tempo per la fragilità del sistema sanitario continentale e la crisi economica in atto, il numero delle vittime potrebbe crescere di cinque volte.

Se da una parte c’è da considerare che in Africa circa l’80 per cento delle derrate alimentari è di produzione locale; dall’altra questa condizione positiva è fortemente condizionata dal mantenimento della pace e della stabilità sociale. Considerando che sono 500 milioni le persone che vivono in aree destabilizzate del mondo, la maggioranza delle quali in Africa — dalla fascia Saheliana al Corno d’Africa, dal settore centrale del continente (Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana) alla crisi armata jihadista che ha investito il Mozambico Settentrionale — l’insicurezza alimentare, combinata ad altre forme di speculazione, fa inevitabilmente lievitare i prezzi nella vendita al dettaglio. Basti pensare che nel corso degli ultimi 12 mesi, nell’Africa subsahariana, si è registrata un’inflazione di circa il 15 per cento dei prezzi dei generi alimentari di base.

Secondo l’economista Paolo Raimondi, attento osservatore dei mercati africani, «i dati, purtroppo, confermano le drammatiche disuguaglianze in atto nel perimetro del mondo globalizzato ed interpellano soprattutto i governi dei cosiddetti Paesi avanzati sulla necessità e l’urgenza di una doverosa economia globale che determini migliori convinzioni di vita e di pace in tutte le parti del mondo, soprattutto in Africa». A questo proposito, per dovere di cronaca, è bene ricordare che nel corso del recente G7 in Cornovaglia (Regno Unito), i leader mondiali hanno preso l’impegno di sostenere il continente africano in questa fase estremamente delicata, guardando al futuro. Ecco perché all’indomani del vertice le Development Finance Institutions, la International Finance Corporation (Ifc), la African Development Bank, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e la Banca europea per gli investimenti (Bei) hanno assunto l’onere di investire 80 miliardi di dollari in Africa, nel settore privato, nei prossimi cinque anni. Si tratta di investimenti ad alto impatto nello sviluppo sostenibile.

La notizia ha avuto grande risonanza sulla stampa internazionale, ma purtroppo la somma stanziata è del tutto insufficiente, se si considera che secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), la sola Africa subsahariana avrebbe bisogno di circa 425 miliardi di dollari di finanziamenti aggiuntivi entro il 2025, per contrastare adeguatamente la crisi pandemica e ridurre la povertà nella macro regione. Inoltre, per quanto sia idealmente lodevole l’impegno profuso per rilanciare la cooperazione con le istituzioni africane e multilaterali per contrastare gli effetti perniciosi del covid-19 sulle economie africane e accelerare la transizione ecologica nel continente, la ripresa e la crescita economica dell’Africa non possono prescindere da altri fattori che purtroppo non sono ancora nell’agenda politica dei Paesi avanzati.

Infatti, una efficace partnership strategica, con l’intento dichiarato di supportare il continente africano nello sviluppo del proprio settore privato, sia imprenditoriale sia finanziario, necessita la ridefinizione dei meccanismi che regolano i mercati internazionali. Secondo lo studio «Riding the storm 2020» («Cavalcando la tempesta») pubblicato dalla banca svizzera Ubs insieme a Price Waterhouse Coopers, il «consulente contabile» delle grandi multinazionali, la ricchezza totale dei miliardari nel mondo ha raggiunto i 10,2 trilioni di dollari alla fine del mese di luglio dello scorso anno. Se si considera che nel 2017 tale ricchezza era stimata attorno agli 8,9 trilioni, l’impennata dei guadagni è stata considerevole. Questo in sostanza significa che nel 2020 — anno particolarmente segnato da drammatici sconvolgimenti economici, sociali e sanitari — le fortune dei miliardari sono cresciute al punto tale che attualmente vi sono 2.189 supermiliardari, detentori di tutta questa ricchezza; nel 2017 erano 2.158.

Ma a cosa è dovuto il successo di questi multimiliardari in tempo di pandemia? Anzitutto hanno saputo sfruttare a loro favore gli effetti dell’inondazione di liquidità da parte delle banche centrali e dei governi che, tecnicamente parlando, ha decisamente giovato a loro favore. Basti pensare che gli istituti centrali di credito, in coincidenza con l’emergenza pandemica, hanno immesso liquidità per 7.500 miliardi di dollari, a cui si sono aggiunti 12.000 miliardi di stimoli fiscali e aiuti di vario tipo da parte di tutti i governi. Con queste premesse, i multimiliardari hanno massimizzato i loro profitti nei settori delle nuove tecnologie, con un aumento medio del 42,5 per cento; della sanità, con un aumento del 50,3 per cento dell’informatica; e delle vendite online.

Questa scenario ha acuito a dismisura la divaricazione tra ricchi e poveri a livello planetario. Così, mentre i Paesi poveri e le economie emergenti rischiano la bancarotta, la ricchezza dei plurimiliardari è aumentata in termini esponenziali. Oxfam, la nota confederazione internazionale di organizzazioni no profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo, calcola che nel mondo i circa 2mila mega miliardari detengano il 60 per cento di tutta la ricchezza globale. Una ricchezza che, aritmeticamente parlando, è di gran lunga superiore a quanto possiedono i 4 miliardi e 560 milioni di persone dei Paesi poveri, pari a oltre la metà della popolazione mondiale. Non basta dunque concentrarsi sulla crescita economica senza tenere conto delle conseguenze della sua distribuzione.

Da rilevare che gli effetti della disuguaglianza vanno ben oltre il potere d’acquisto in quanto tale. Infatti, tali disparità influiscono sull’aspettativa di vita delle persone e sull’accesso ai servizi di base come assistenza sanitaria, istruzione, acqua e servizi igienico-sanitari. Inoltre, limitano i diritti umani fondamentali delle persone, nelle più svariate forme, attraverso, per esempio, la discriminazione, l’abuso e la mancanza di accesso alla giustizia.

Da quanto detto si evince pertanto che gli 80 miliardi di investimenti scaturiti dall’ultimo G7 sono ben poca cosa rispetto non solo ai reali bisogni delle popolazioni africane, ma anche e soprattutto alla necessità di avviare delle riforme macroeconomiche che possano tutelare i diritti dei Paesi africani e in termini generali di quelli del sud del mondo. Da rilevare che nell’arco dei prossimi tre anni il debito dei Paesi africani raggiungerà i 900 miliardi, un fenomeno che si è acuito a dismisura a seguito del declassamento delle economie nazionali africane operato in piena pandemia dalle agenzie di Rating. Si è trattato di un downgrade che ha ridotto il valore delle obbligazioni sovrane usate come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche centrali africane, aumentando allo stesso tempo il costo degli interessi e, quindi, del debito.

È evidente che occorre affermare un nuovo indirizzo come auspicato da Papa Francesco nella sua enciclica sociale Laudato si’: «La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana».

di Giulio Albanese