La modifica del nome del Garante nazionale

A tutela delle persone private della libertà

 A tutela delle persone  private della libertà   QUO-135
17 giugno 2021

Potrebbe sembrare inessenziale ma la modifica del nome della figura del “Garante nazionale delle persone detenute” da cui è stato cancellato, per decreto, il termine “persone detenute” in favore della dizione “persone private della libertà personale” ha un significato importante. Il cambiamento riconosce infatti l’estensione del mandato del Garante rispetto alle diverse e differenti aree di intervento, come i centri di accoglienza per immigrati o le residenze sanitarie assistenziali, superando il rischio che i suoi compiti rimangano ancorati a uno solo degli ambiti della sua azione, quello appunto della detenzione penale.

E il 2020 ha dimostrato come l’opera del Garante sia stata importante, ad esempio, nel sollevare il velo sulla situazione di inaccessibilità delle Case di riposo, dove il covid ha colpito più duramente, ma che la necessità di distanziamento e isolamento ha trasformato in fortezze impermeabili all’esterno. Ciò ha compromesso il benessere degli ospiti, anziani e persone con disabilità, privati dell’opportunità di relazionarsi con gli altri e con i propri cari. «Ne è risultata una tutela essenzialmente biologica della vita, in molti casi nel suo tratto terminale, svincolata dal concetto ampio della persona e della vita stessa a cui fanno riferimento gli strumenti di tutela dei diritti umani» rileva la Relazione annuale al Parlamento, che verrà presentata lunedì alla Camera dal Garante, Mauro Palma.

Una realtà “dimenticata’” questa delle residenze per anziani e disabili, con un totale di 420.329 posti letto, di cui 312.656 per anziani — 85.932 posti in Lombardia — 44.555 in tutto il Sud, che la drammaticità dell’ultimo periodo vissuto ha dimostrato, secondo il Garante, necessitare di maggiore attenzione. Così come, secondo il Garante, necessità di maggiore solidarietà la salute dei detenuti messa a rischio, nell’anno appena trascorso, da un «populismo penale» che si è scatenato contro le detenzioni domiciliari concesse per consentire al sistema penitenziario di prevenire il contagio all’interno degli Istituti.

Garantire un distanziamento sociale all’interno delle carceri in cui nel febbraio 2020 erano recluse oltre 61 mila persone era, infatti, impensabile. Ma alle misure e ai provvedimenti deflattivi adottati dal governo e dalla magistratura si è immediatamente contrapposta la campagna mediatica della politica, «particolarmente pervasiva su una collettività inasprita dalle sofferenze e dalle privazioni della pandemia che ha veicolato l’idea di scarcerazioni facili a vantaggio di chi avrebbe ricevuto un beneficio dal covid».

Si è trattato di «un messaggio crudo e brutale — rileva il Garante — del tutto indifferente alla realtà che ha investito il sistema penitenziario italiano mettendolo di fronte alle sue carenze strutturali, igieniche e organizzative». Nonostante ciò, «grazie all’operato responsabile della magistratura di sorveglianza», sottolinea il Garante, si è arrivati ad una riduzione sensibile della popolazione detenuta che a dicembre 2020 è scesa a 53 mila persone recluse.

Riguardo ai migranti la Relazione affronta due diverse novità introdotte, la prima la quarantena in mare per coloro che arrivano irregolarmente in Italia e la seconda l’introduzione del meccanismo di reclamo, che le persone trattenute nei centri per immigrati possono rivolgere ai Garanti per contestare le modalità esecutive della misura restrittiva. La prima, secondo il Garante, pur essendo una soluzione comprensibile in un momento di crisi sanitaria «non può costituire un modello per le procedure di ingresso, replicabile al di fuori del periodo di emergenza epidemiologica».

Il 2020 però, secondo quanto rileva la Relazione, ha anche «segnato un cambio di direzione nella tutela delle persone migranti presenti nel Paese». Tra queste appunto il dare voce a coloro che varcano la soglia dei luoghi di detenzione amministrativa che ora, con l’introduzione del reclamo, «hanno la possibilità di autodeterminarsi rispetto alla tutela della propria dignità e delle condizioni di vita patite all’interno delle strutture».

Una realtà quella dei Centri di permanenza per i rimpatri in Italia con solo il 50,88 per cento delle persone in essi trattenute effettivamente rimpatriate. «Un dato che pone seri interrogativi circa la legittimità di un trattenimento finalizzato a un obiettivo che si sa in circa nella metà dei casi non raggiungibile», conclude il Garante.

di Anna Lisa Antonucci