L’“italiano pazzo”
che non tornava mai
senza una storia

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15 giugno 2021

«Perché dovunque s’incontra la vita s’incontra la bellezza. Basta guardarsi attorno per vederla: anche in una foglia, in un sasso, in un balcone fiorito. Anche nei riflessi in una pozzanghera». Ne era convinto Mario De Biasi, che di vita ne ha incontrata e raccontata tanta nel suo lavoro di fotoreporter. L’ha incontrata ovunque nel mondo, anche nei posti più inospitali e laddove era messa in pericolo. E per questo non sempre ha trovato la bellezza, almeno non quella esteriore. Ma ne ha incontrato una diversa: la dignità mostrata dalle persone anche in situazioni estreme; e l’ha documentata con sensibilità e rispetto, come solo i grandi fotografi riescono a fare.

A Mario De Biasi, scomparso nel 2013, la Casa dei Tre Oci di Venezia dedica fino al 9 gennaio 2022 un’ampia retrospettiva che ne ripercorre l’intera produzione, dagli esordi della sua collaborazione con la rivista «Epoca» fino agli ultimi lavori. Curata da Enrica Viganò, la mostra — «Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003» — è frutto di un’accurata ricerca nel suo archivio personale e raccoglie 216 fotografie, metà delle quali inedite, snodandosi per temi in dieci sezioni. Un percorso che passa attraverso il racconto di eventi che hanno fatto la storia, i viaggi esotici, i ritratti di personaggi potenti e famosi, le scene di vita quotidiana, i volti anonimi, per giungere inaspettatamente al concettuale e all’astratto delle immagini dedicate alla natura, in cui forme e segni sono rivisitati e resi come una sorta di «poesia visiva».

«Era il momento — ha osservato Viganò —. Si sentiva la necessità di una mostra antologica che celebrasse il talento di Mario De Biasi in tutte le sue sfaccettature. Il fotoamatore neorealista, il fotoreporter di “Epoca”, il testimone della storia, il ritrattista di celebrità, l’esploratore di mondi vicini e lontani, l’artista visuale, l’interprete di madre natura, il disegnatore compulsivo e creativo».

Uno dei suoi punti di forza era l’inquadratura, per la quale aveva un occhio davvero particolare; una capacità sintetizzabile, come fa la curatrice, con lo slogan less is more: «Spolpava la visione da inutili orpelli e concentrava l’attenzione sul punto nodale della scena. Sapeva cosa voleva e riusciva a far entrare nell’inquadratura quel condensato di segni che servivano al suo racconto visivo. Niente di troppo e più vicino possibile al soggetto».

Molti conoscono quella che è forse la fotografia più nota di De Biasi, Gli italiani si voltano, che compare anche sulla copertina del catalogo della mostra edito da Marsilio e che ritrae una giovanissima Moira Orfei vestita di bianco passeggiare per il centro di Milano, attirando gli sguardi di un gruppo di uomini. Tra i tantissimi inediti esposti viene presentata per la prima volta l’intera sequenza di questo scatto realizzata nel 1954 per il settimanale di fotoromanzi «Bolero Film» e che venne scelta da Germano Celant come immagine guida della mostra «The Italian Metamorphosis 1943-1968» al Guggenheim Museum di New York.

Proprio alla New York raccontata da De Biasi sono dedicate alcune suggestive immagini della retrospettiva. Nella Grande Mela il fotografo giunge la prima volta nel 1956 con una crociera organizzata per presentare la moda italiana in America. Avrebbe dovuto ripartire a bordo dello stesso transatlantico, il mitico «Cristoforo Colombo», ma rinuncia agli abiti haute couture delle signore profumate e dei signori impomatati per restare altri sette giorni nella metropoli per documentarne i contrasti, le luccicanti vie del centro e le strade degradate dei quartieri poveri. Il viaggio in aereo lo fa a sue spese, dopo aver mangiato solo pane e Coca-Cola.

L’anno dopo De Biasi è in Ungheria, a Budapest, per raccontare la drammatica insurrezione. E lo fa da una prospettiva fin troppo ravvicinata, tra le barricate degli insorti, letteralmente sotto il tiro delle pallottole, tanto da restare ferito; un’impresa che gli fa guadagnare tra i colleghi l’appellativo di «italiano pazzo». L’audacia, del resto, come scrive Viganò, era «il tratto con cui affrontava ogni scena». «Per raccontare il matrimonio dello Scià di Persia — racconta la curatrice — si arrampica su un cornicione come se non avesse trenta chili di attrezzatura addosso». Ma perché stupirsi. Per la fotografia il radiotecnico De Biasi aveva lasciato il posto sicuro alla Magneti Marelli solo perché gli avevano promesso due mesi di prova a «Epoca»: sarebbe poi diventato il primo assunto dalla rivista come fotografo a tempo pieno. Del resto, come diceva Enzo Biagi, non tornava mai senza un servizio.

Audacia, dunque, unita a una curiosità pronta a lasciarsi sorprendere anche da avvenimenti apparentemente minori. Gli anni 50 del Novecento sono anche quelli della ricostruzione in Italia e il fotografo documenta a più riprese la voglia di rinascita di un popolo che sta riprendendosi dalle devastazioni della guerra. Sono scatti di gente comune, di operai al lavoro nei cantieri, di donne intente a ricamare, di ragazzini impegnati nel gioco.

Nel 1964 De Blasi è protagonista di due servizi che testimoniano la sua ostinazione a voler cercare e documentare la bellezza anche in contesti decisamente estremi. Prima parte per la Siberia, per fotografare con temperature anche a meno 65 gradi, poi torna in Italia per salire sull’Etna in eruzione, per immortalare le lingue di lava che ne solcano le pendici. Anche di queste imprese dà conto la mostra. Ma non mancano momenti di vita quotidiana, con la sua leggerezza. Foto rubate di baci di innamorati, di barbieri di strada, di lavoratori in pausa pranzo; immagini che De Blasi scatta da Londra a Parigi, da Roma a Vienna, dal Cairo a Teheran, dalla Thailandia al Brasile, da Israele al Nepal.

In mostra anche le immagini degli astronauti che sbarcarono sulla Luna, i suoi più famosi ritratti, tra i quali quelli di Sofia Loren, Brigitte Bardot, Federico Fellini, Maria Callas, Aristotele Onassis; alcuni degli innumerevoli viaggi, in particolare a Hong Kong, in Sud America e in India. Testimonianze preziose di un’epoca, spezzoni «di un ’900 che oggi appare lontano ma che non smette di muovere curiosità», come precisa Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci.

Accanto alle fotografie sono esposti molti altri materiali, volumi, i numeri originali di «Epoca», quaderni e due approfondimenti audiovisivi. Non mancano i disegni, perché, oltre a essere un grande fotografo, Mario De Biasi era appassionato di arte e di pittura. Insomma quello proposto è un suggestivo viaggio a trecentosessanta gradi nell’universo visivo di un autodidatta entrato di diritto tra i grandi della fotografia.

di Gaetano Vallini