«La logica dei sommersi» di Giorgia Meriggi

Restituire luce

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12 giugno 2021

È un libro prezioso La logica dei sommersi di Giorgia Meriggi (Marco Saya Editore, 2021). Strizzando l’occhio a quelli di Primo Levi, parla di altri sommersi, più letterali: i pesci di mare, di fiume, di lago, che non hanno voce e una voce probabilmente nemmeno reclamano. Che sono metafora di tanti ordinari sommersi umani celati nelle paludi della vita, in una dimensione tanto oscura quanto essenziale.

Degli uni e degli altri sommersi — pesci e uomini, tutti in fondo chimere — Meriggi parla attingendo a un immaginario insieme fervido e composto, in tono magico, con uno stile asciutto. Agli uni e agli altri senza enfasi restituisce luce. Il quadro di Klee che campeggia sulla copertina è l’immagine pressoché perfetta del suo contenuto, fosforescenza di colori semplici (in apparenza) e complessi (a scoprirne le nervature) che si staccano dal fondo buio. Tre sezioni scandiscono l’evoluzione di questa raccolta poetica, che è anche evoluzione di stile e di tono. Dal fondo dei fiumi e dei mari si passa all’acquario della quotidianità umana: quella più estrema e dimessa, più paradossale, che si manifesta bell’accettazione di un ospedale; e poi quella più apertamente assurda, che prende forma nei Dialoghi surreali all’interno di una bizzarra “Manifattura di conserve”. Parallelamente, dal verso si passa alla prosa, il registro diventa più ironico, più stralunato, il contenuto più spiazzante e allusivo, in piena atmosfera beckettiana. Sempre, però, quella di Meriggi resta una poesia di grazia e sottigliezza; una poesia in cui il silenzio pesa quanto le parole e le parole sono intessute di una ragnatela di sensi, sentimenti, suggestioni in raffinato equilibrio.

Si tratta di una poesia “diottrica”, che fa luce nelle profondità: l’acqua sotto cui i pesci vivono è una frontiera, una barriera, uno schermo e insieme una lente di ingrandimento. In un disegno di simmetria e mistero, infinitamente grande e infinitamente piccolo si sovrappongono, reciprocamente si rivelano: «I pesci amano il mistero / le notti senza luna / lo sguardo privo di palpebre / grandangolare / conserva il rimpianto / per l’oceano universale. / Nell’occhio rimodellato / per la visione in aria / perseverano a esplodere / inesistenti stelle. / Fuori dall’acqua / nessuno sa / cosa fa la luce all'occhio, / è un segreto fra particelle».

Ogni orpello scompare e aumenta il peso di ciò che resta. Una poesia di piccole movenze, piccole pulsioni, emozioni pudiche che detonano. Un compendio sulla meraviglia della semplicità, che attinge a un immaginario fiabesco con piglio gentile ma pungente, che espone la magia dell’essenziale e omaggia la naturalezza della vita: «Evoluzione, Signorina Pesce Rosso, è la parola chiave. Ma anche dissipazione lo è. Il compimento dell’evoluzione? La macchina. (...) Le rammento, Signorina Pesce Rosso, che il 99% della massa corporea è costituita da sei soli elementi: ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio e fosforo. (...) Una volta dissipata ogni infinitesima percentuale di tali elementi, se venisse caricata su un adeguato supporto digitale lei potrebbe continuare a pensare e percepire. Ma è davvero convinta di poter accontentarsi di un infinito alternarsi di “uno” e “zero”? Che vita sarebbe? Ma poi, sarebbe ancora in vita, Signorina Pesce Rosso?».

I pesci affondati, i malati, i pazzi lucidissimi, che smascherano la follia dei “sani”, finiscono per rappresentare una dimensione dell’esistenza: un atteggiamento disarmato ed elementare che, nella baldoria magniloquente di questa era, permette di preservare la bellezza, il senso, lo stupore. «I pesci non riconoscono la luna/ credono sia una di loro», «Sott’acqua tutto cade/ chiedendo scusa», «Dove l’acqua è più buia/ e fonda/ Dio parla ancora/ dell’origine del mondo»: tutto denota una ricerca di essenza. Tutto alla fine diventa istintiva comprensione, pietà, fratellanza sofferta e delicata. Un abbraccio alle pieghe più intime della vita minima.

di Leonardo Guzzo