IL FILO NELLA CITTÀ
Storia di un danzatore

L’arte di ascoltare
il proprio tempo

 L’arte di ascoltare il proprio tempo  QUO-131
12 giugno 2021

«A volte dovremmo essere solo capaci di osservare. Spogliarci della necessità di agire e mostrarsi. Accogliere la dignità. Mettersi in disparte e guardare. S’imparano un sacco di cose». Esordisce così Marcopaolo Tucci, artista e danzatore, allievo e maestro, uomo e ragazzo. Come tutti i ballerini. Elena, la contact tracer, incaricata di ricostrure i contatti delle persone positive al covid, ha appena iniziato a scavare nell’identità di Marcopaolo. A tessere le fila della storia del prossimo. A comporre il puzzle dell’intimità. Lo vede dalla finestra della webcam e, prima di ricomporne gli spostamenti, desidera ascoltarlo, comprenderlo, percepirlo.

«Da ogni esperienza lavorativa», prosegue Marcopaolo, «ho sempre pensato di dover uscire con la consapevolezza di aver appreso qualcosa. Mi è successo con Gigi Proietti, Gino Landi, Pietro Garinei…la vita sul palcoscenico mi ha permesso di conoscere molte persone e luoghi diversi. Con i teatri di Roma, ad esempio, ho un rapporto particolare. Ho lavorato molto al Teatro Sistina, soprattutto sotto la direzione di Garinei e con la regia e coreografia di Landi. Per un danzatore, arrivare al Sistina è un’emozione unica. Negli anni ‘90, poi, c’era un’atmosfera indescrivibile: un grande rispetto e una forte disponibilità d’animo, soprattutto da parte della direzione. In quel periodo mi sono aperto anche alla recitazione. Canto, danza e recitazione: tre forme d’arte capaci d’insegnare la semplicità del gesto e l’intensità della comunicazione. Contemporaneamente. Una grande nuvola stellata che vola sopra al palcoscenico. E lo tappezza di magia»

Elena: «Luoghi e persone, ma anche spettacoli. Capaci di rappresentare l’anima di una città o di un’epoca. Il teatro, secondo me, è identità. Non è solo intrattenimento. È conoscenza delle usanze e delle storie del passato, o anche di aspetti del presente. È confronto. Un diffusore di emozioni. Insomma, una realtà come questa andrebbe rispettata e curata, specialmente in tempi di pandemia. Eppure, i problemi sono tanti…»

Marcopaolo: «Anche troppi. Non bisogna pensare solo ai grandi teatri, ma anche a quelli più piccoli. In un Paese come l’Italia, pieno di dialetti e racconti, ogni piccolo teatro custodisce un aspetto della realtà. Inoltre, i piccoli teatri sono delle palestre per l’attore, il regista e lo spettatore. Dei trampolini di lancio per il futuro. Ricordo sempre con piacere il teatro dialettale romanesco di Pietro Romano o il teatro Tirso de Molina. Un luogo di quartiere. Piccolo, ma, forse proprio per questo, con una sua forte identità. Capace di accogliere e stimolare. E poi ci sono altri tipi di sensazioni e impulsi, come quelli che ho provato di fronte a Gigi Proietti. Tutto ciò che ho fatto con lui lo porto nel cuore. Proietti era un uomo di teatro. Dagli attori di cui si circondava voleva qualità. Ma non la pretendeva. La cercava. Ci perdeva del tempo. E così faceva con i personaggi secondari e i ballerini. Coinvolgeva, narrava, ironizzava. Spiegava il contesto dietro il racconto. E faceva in modo che il balletto fosse dentro la storia. Gigi era l’armonia e la semplicità».

Ogni nome, un’emozione. Ogni immagine, un pensiero. Ogni storia, un balletto. Aprire la scatola dei ricordi e profumare la stanza dell’odore di nostalgia e benessere. Elena, dietro lo schermo di un computer, non può sentire tutto ciò. Ma lo percepisce. È questo che la distingue dai suoi colleghi. E allora, con Marcopaolo, deve solo mettersi comoda e iniettarsi il vaccino della curiosità. Un monodose, grazie. Qui c’è bisogno di divagazione e immaginazione, possibilmente immediata. Di fronte a certe storie non si può aspettare il richiamo.

Marcopaolo: «Roma è la base della mia vita artistica. Tutto si è concentrato qui. Non a caso, due degli spettacoli a cui sono più legato sono ambientati a Roma: “Rugantino” e “Un paio d’ali”. Stessa città, ma epoche diverse. In “Un paio d’ali” ci sono i giovani che sognano un futuro a Cinecittà, mentre “Rugantino” è ambientata nella Roma papalina. È una commedia particolare e innovativa: si ride fin dall’inizio, ma il finale è tragico. Nonostante le epoche diverse, credo che in entrambi questi spettacoli l’identità di Roma e dei suoi abitanti riesca sempre ad emergere. L’arroganza, la sfacciataggine e il ridimensionamento. S’intercetta il romano spaccone e brontolone, ma poi viene fuori il romano buono. Quello che vive e ragiona de core. Un atteggiamento del genere non può lasciare indifferenti. Ricordo che, nella scena finale di Rugantino, nonostante le centinaia di repliche, mi venivano spesso le lacrime. L’atmosfera, la scenografia, la musica di Armando Trovajoli… certe cose smuovono le corde emotive. Sì, penso che quelli siano stati gli anni più belli della mia vita. Sono stato davvero felice».

Elena: «Mens sana in corpore sano, mi viene da pensare quando parli della tua storia e del tuo lavoro. Molto spesso, invece, c’è la tendenza a classificare i lavoratori del mondo dello spettacolo, specie se danzatori, come dei soli cultori del fisico. Artisti che trascurano la spiritualità per dedicarsi alla performance. Un po’ come la società odierna, spesso concentrata sull’esaltazione del corpo e dell’apparenza. Insomma, le palestre piene e i luoghi di spiritualità vuoti. I muscoli in allenamento, il cervello al pit stop. Che ne pensi?»

Marcopaolo: «La danza è una di quelle arti che, sin da subito, ti obbliga ad avere una disciplina. L’educazione parte dalla testa e dal modo di ragionare, non dai piedi. Bisogna anche abituarsi ad allenare l’orecchio, saper ascoltare la musica ed esercitare il ritmo. Il tempo. Non anticiparlo, ma coglierlo. Poi ci sono la postura, la sbarra, il contatto col terreno…tutte queste accortezze sono fondamentali. Come quando s’impara a suonare il pianoforte. All’inizio l’attività è noiosa, ripetitiva, severa. I risultati non sono immediati. Se, dopo la fase iniziale, si scopre di avere bisogno e voglia di andare avanti, allora si comprende l’esistenza di un fuoco che va alimentato. Non si può iniziare volendo ballare come i ballerini dei reality televisivi, come non si può iniziare a suonare il pianoforte con Chopin. C’è bisogno di una progressione. Nella danza, nella musica, come nella vita. La crescita e la maturazione. Una causa che spesso diventa effetto. L’arte è qui anche per questo. Come bussola per la vita. È ciò che cerco di trasmettere ai miei giovani allievi».

Elena non glielo confessa, ma nella sua anima si cela il desiderio di essere leggiadra e affascinante come una danzatrice. Camminare in equilibrio su quel grande e tortuoso palcoscenico che è la vita, in continua evoluzione e con gli spettatori che diventano attori. Co-protagonisti, possibilmente non antagonisti. A volte l’esistenza non assomiglia a un film. Ricorda, piuttosto, un teatro. Con le sue maschere, la quarta parete, i pochi effetti speciali perché, in fondo, non ne abbiamo poi tanto bisogno. Spetta a noi decidere se palcoscenico o platea. Da che parte stare. Ci sono solo sei scalini da attraversare. Salire o scendere?

di Guglielmo Gallone