Il sommo poeta e il Latino

La musica nelle parole

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09 giugno 2021

Non v’è alcun dubbio sulla perfetta conoscenza del latino da parte di Dante anche se, giustamente, è più noto come padre della lingua italiana di cui fu Sommo Poeta, autore della Divina Commedia ecc. Piace qui riportare quanto scrisse Francesco Di Capua nel 1941 nel volumetto: Fonti ed esempi per lo studio dello «Stilus Curiae Romanae» mediovale (Roma, Maglione, 1941) avvisando il lettore che la traduzione italiana del termine latino dictator in dittatore allora in uso è stata da me riportata in quella di dettatore ad evitar ambiguità. Ma veniamo al Di Capua «Dante dopo aver appreso le nozioni fondamentali della lingua latina nelle scuole di grammatica, passò a quelle di Ars dictandi, dove, insieme con lo studio minuto delle varie parti di una epistola, dei colori retorici, dei vizi del discorso... imparò pure i precetti dello stile della curia romana, esercitandosi nella composizione di lettere fittizie, di esordi e di altri componimenti letterari, nei quali erano applicate con cura e con sfarzo le regole studiate. Lo studio dell’ars dictandi incominciato a Firenze, venne perfezionato a Bologna, dove fiorivano le scuole più frequentate e i maestri più dotti in tale arte. Dante, come Brunetto Latini, fu ritenuto dai contemporanei un dettatore... Giovanni Villani... afferma che fu rettorico perfetto, tanto in dittare e versificare, come in aringa parlare nobilissimo.

«Nell’ ars dictandi era data grande importanza ed estensione allo studio della salutatio, con cui s’iniziava ogni epistola; e la prima quartina del primo sonetto scritto dall’Alighieri arieggia proprio a una salutatio epistolare: “A ciascun’alma presa e gentil core / nel cui cospetto ven lo dir presente, / in ciò che mi rescrivan suo parvente, / salute in lor segnor, cioè Amore”.

«Alla morte di Beatrice, seguendo un uso presente presso i migliori dettatori, Dante inviò “a li principi della terra” un’epistola in latino, la quale, secondo i precetti delle summae dictandi incominciava con un versetto biblico (cfr. Vita Nuova, 30). La fama dantesca quale dettatore doveva esser più grande, quando fu espulso da Firenze, giacché, per testimonianza di Flavio Biondo (Decades) nei primi anni dell’esilio, trovandosi alla corte degli Oderlaffi a Forlì, a lui fu dato l’incarico di dettar le lettere che il segretario di Scarpetta Ordelaffi, Pellegrino Calvi, trascriveva. Nel 1304 anche a Dante fu affidata la cura di stendere la risposta, spedita a nome del Consilium et Universitas Alborum de Florentia al cardinale Niccolò da Prato, inviato dal Papa quale paciaro in Toscana. L’epistola è un vero proclama politico. Scritta con passione e schiettezza, è dettata dal più perfetto stile romano con finissima tessitura ritmica con clausole molte e bellamente variate» (Ibid., pp. 93-95).

Fin qui il Di Capua. A questo punto, per pienamente intendere Dante come sommo latinista, che è la finalità di questo mio scritto, ritengo opportuno di riportar l’inizio della seconda epistola dell’Alighieri medesimo inviata “a’ Fiorentini” per la discesa dell’imperatore Arrigo vii invitandoli a una festosa accoglienza del medesimo. Ma prima ho a fare l’ultima doverosa premessa. Questa epistola è stata composta, come di già sopra accennato, secondo le norme dell’Ars dictandi e lo Stilus Curiae Romanae le quali si basano nelle clausole più ritmiche che metriche dei cursus latini: planus, tardus, velox, trispondaicus, mixtus facendo coincidere l’ictus (la battuta) con l’accento tonico delle parole, specie quelle delle frasi finali rendendole più gradite all’orecchio del lettore. Non ha ogni lingua della terra una sua propria musicalità, che può esser percepita anche senza conoscere la lingua stessa?

Vengo dunque a riportar l’inizio di detta epistola la quale considero col Di Capua e non pochi insigni studiosi, tra’ quali anche i concittadini e corregionali dell’Alighieri, una fra le migliori sue opere latine, ricordando insieme le Epistulae, il De vulgari eloquentia ecc., pubblicate lodevolmente dal «Corriere della Sera» insieme ad altre opere. Ma ecco il testo, di cui invito a notare l’armoniosa e gradevole musicalità: Dantes Alagherii Florentinus et exul immeritus scelestissimis Florentinis intrinsecis. Aeterni pia providentia Regis, qui dum caelestia sua bonitate perpetuat, infera nostra despiciendo non deserit, sacrosancto Romanorum Imperio res humanas disposuit gubernandas, ut sub tanti serenitate praesidii genus mortale quiesceret. Et ubique, natura poscente, civiliter regeretur... (“Dante Alighieri Fiorentino e senza colpa esule ai malvagi Fiorentini della città. La benevola provvidenza dell’eterno Re-Dio che perpetua con la sua bontà le cose celesti e non abbandona avendo riguardo le nostre cose della terra e per la sacrosanta autorità di Roma dispose di governare le cose umane così che con la serenità di tanto presidio il genere mortale fosse tranquillo e dappertutto, richiedendolo la natura, civilmente si vivesse...”).

Termino col dire, e non vorrei sbagliarmi: Dante se non avesse conosciuto perfettamente la lingua latina e insieme la sua propria musicalità, che iniziò a imparare entrambe da adolescente, sarebbe stato idoneo a scriver la somma opera poetica della Divina Commedia? Al cortese lettore la risposta!

di Antonio Pelosi
Latinista della Segreteria di Stato Vaticana dal 1978 al 2018