I collaboratori di giustizia decorano la cappella del carcere di Alessandria

Alla scuola
di fra Beppe

 Alla scuola di fra Beppe  QUO-128
09 giugno 2021

Decidere di abbellire le mura spoglie della cappella di sezione, per dimenticare almeno quando si prega di trovarsi in un carcere: è quello che ha fatto un gruppo di collaboratori di giustizia della casa di reclusione San Michele di Alessandria, partecipanti al laboratorio Tecniche di decorazione e stucco proposto dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri. Ma quello che hanno ottenuto alla fine del corso è stato più di una chiesetta accogliente e finemente decorata; è stato un percorso interiore importante che ha attraversato varie tappe: dalla rilettura della Bibbia (indispensabile per realizzare i dipinti) a quella della propria vita, sempre sostenuti dalle braccia forti, dalle orecchie attente e dai sorrisi larghi di fra Beppe Giunti, francescano dei minori conventuali del convento Madonna della Guardia di Torino.

Difficile definire chi sia per loro fra Beppe: non è il cappellano, questo è certo, e non è neppure un insegnante, anche se con lui i detenuti — quasi tutti per reati legati alla camorra — di scuola parlano moltissimo: «Forse perché hanno sempre creduto di non averne bisogno, ahimè, ma il sentimento che associano di più alla parola scuola è nostalgia — racconta — mi dicono sempre: fra Beppe, se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre; la camorra ha paura della scuola…». D’altronde lo diceva già Victor Hugo: «Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione». E per loro scuola non significa solo lo studio della lezione, ma scoprire il valore di imparare, riuscire a stare con gli altri in modo diverso, conoscere finalmente una bellezza capace di aprire il cuore.

Forse potremmo dire che fra Beppe per i detenuti è il punto d’unione tra la Parola letta e l’immagine da ritrarre: un esegeta insomma. Ride di questa definizione: «Uno dei ragazzi ha preso il compito talmente a cuore che è riuscito a realizzare dietro al crocifisso sull’altare un’opera con riferimento alle Sette Chiese dell’Apocalisse, un lavoro di alta teologia e di alta esegesi! Un altro detenuto, invece, colpito dalla stazione della via crucis che stava preparando, in cui Gesù cade sotto il peso della croce, ha mormorato: come me che sono caduto sotto al peso del peccato per 30 anni, ma poi mi sono rialzato…».

Allora forse fra Beppe è una guida spirituale verso una fede rinnovata? «L’espressione “percorso di fede” fa parte del nostro linguaggio — spiega ancora — loro sono abituati alla lingua della strada, ed è attraverso questa che io comunico con loro, perciò direi più correttamente che quella che hanno raggiunto è un’umanità ritrovata, hanno capito che Dio non t’impicca al tuo passato, ma ti prende la mano se tu gliela tendi».

Sicuramente questo francescano è qualcuno che il volto di Cristo in carcere lo vede tutti i giorni nei lineamenti dei reclusi, duramente scolpiti dalla vita: «Una volta uno mi ha regalato un quadro che aveva fatto e rappresentava Gesù con la corona di spine e il viso sporco di sangue — ricorda — loro sono questo: soffrono come Gesù, ma per i propri peccati, e risorgono nel momento in cui si pentono e iniziano a collaborare con la giustizia. Le ferite, però, si vedono ancora, perché non smettono di fare i conti con il passato. Spesso e volentieri, infatti, restano folgorati dal passo del Vangelo in cui Gesù promette al buon ladrone che presto saranno insieme in Paradiso».

Magari fra Beppe è un educatore, come ce ne sono pochi… fuochino: «Credo molto nel significato di educare nel senso di far emergere qualcosa che si ha dentro, e poi ricordo che l’articolo 27 della nostra Costituzione precisa che questo è il fine della pena, non è una vendetta sociale!», aggiunge.

Proviamo a immedesimarci un attimo. Una figura così non sembra quella di un padre? «Mi viene in mente una storia — prosegue con un filo di voce — quella di un detenuto che mi chiedeva come poteva pregare il Signore chiamandolo Padre Nostro quando lui, con tutti gli assassinii che aveva commesso, di figli senza padre ne aveva lasciati tanti».

Finalmente è chiaro. Fra Beppe per i suoi detenuti è un fratello e loro per lui sono i “fratelli briganti”, come li chiamava il Poverello di Assisi. Ed è così che, tra i pennelli e i colori di una semplice cappella carceraria, può affacciarsi per l’uomo la possibilità di riconciliarsi, che non vuol dire dimenticare, bensì andare avanti. E risorgere. Come Gesù, che guarda caso è nostro fratello.

di Roberta Barbi