Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

Un nuovo rapporto

Una scena da «La bicicletta verde » (2012) di Haifaa Al- Mansour
08 giugno 2021

«Munito della bicicletta, l’uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali». Così scriveva Ivan Illich su «Le Monde» a inizio 1973. «Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l’uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l’equilibrio ereditario». Giusto un assaggio di quella miniera che è Elogio della bicicletta (Bollati Boringhieri 2006, traduzione di Ettore Capriolo), in cui lo storico e filosofo austriaco offriva, ancora una volta, spunti di riflessione scomodi e anticipatori. Denunciando, tra l’altro, il credo illusorio dell’uomo moderno, convinto «che il livello di democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente».

È tutto questo la bicicletta, intesa non solo come sport o come hobby, ma come mezzo di trasporto che non inquina e non danneggia, non ha costi (né benzina, né assicurazione, né parcheggio) e non occupa spazio urbano. È libertà la bicicletta, pianificazione del tempo, ascolto di suoni e percezione di odori che altri mezzi di locomozione precludono; è fatica, allenamento, rispetto dell’ambiente, possibilità di far fronte ai bisogni. È strumento che purtroppo, al di là di ridicoli proclami o maquillage posticcio, è ancora ben lontano dal diventare interesse attivo delle nostre municipalità.

La bicicletta, poi, è stata ed è strumento di emancipazione. Lo racconta la vita di Alfonsina Strada che nel 1924 partecipa al Giro d’Italia, prima e unica donna a cimentarsi nell’impresa gareggiando con i ciclisti maschi (la recensione al romanzo di Simona Baldelli è di Nicla Bettazzi); lo raccontano le donne italiane della Resistenza (a Roma, la pista ciclopedonale che unisce Monte Mario all’area di Monte Ciocci ha una targa intitolata a Laura Bianchini, una delle 21 donne elette all’Assemblea costituente, in sella come partigiana nella brigata cattolica Fiamme Verdi). E lo racconta benissimo, volendo allargare lo sguardo, la regista Haifaa Al-Mansour nel suo splendido La bicicletta verde (2012), ambientato oggi alla periferia di Riyadh. Wadjda, la bimba protagonista, ha 10 anni — esattamente come Alfonsina quando inizia le sue fughe «con quel marchingegno quasi magico» — e su tutto desidera una bicicletta, che i suoi genitori non solo non si possono permettere, ma che non ritengono consona a una femmina. Ma la bimba, vitale e determinata — con una forcina per capelli, attacca il suo nome all’albero genealogico familiare, tutto al maschile, che campeggia in salotto — non si arrende, in un percorso che cambierà anche sua madre.

La bicicletta poi è teologicamente in linea con l’insegnamento sociale cattolico, come argomentava qualche settimana fa John W. Miller su «America», ed è parabola «del nostro essere non più schiavi ma figli», come argomenta qui Sergio Massironi, partendo dalla pedalata di un padre, Leonardo Martini, verso Carlo Maria, novizio gesuita.

Quattro Pagine sono poche per lei. Ma intanto in queste «Quattro Pagine» rifletteremo anche su come in passato per i sacerdoti andare in bicicletta fosse una bella fatica perfino in discesa (Gabriele Nicolò); su come le bici abbandonate o scartate possano rappresentare un’occasione importante per ragazzini a rischio di abbandono scolastico (Enrica Riera); sul fatto che il passaggio dalla bici all’auto negli anni Cinquanta sia stato qualcosa in più che solo una metafora (Silvia Gusmano).

Pedaliamo, con il casco; riscopriamo la bicicletta, ci farà bene. Anche perché averla persa “per strada” come indispensabile oggetto quotidiano ha portato, ammoniva già nel 1973 Ivan Illich, a una «immaginazione intontita dalla velocità».

di Giulia Galeotti