Le congregazioni religiose si preparano al convegno «Carisma e creatività»

Santa povertà
e buon esempio

« Allegoria della povertà» (affresco sulla volta a crociera della basilica inferiore di Assisi, attribuito a Parente di Giotto)
08 giugno 2021

Racconta la leggenda perugina che san Francesco, gravemente malato e ormai vicino alla morte, si preoccupò di scrivere nel suo testamento che «tutte le abitazioni dei fratelli devono essere fatte di fango e di legno, in segno di povertà e umiltà e che le chiese che si fabbricano per loro siano piccole». Già in precedenza aveva invitato i frati a scegliere un «terreno sufficiente per costruirvi il convento con l’orto e le altre cose indispensabili, i frati devono innanzi tutto determinare quanta terra basterà, senza mai perdere di vista la santa povertà che abbiamo promesso di osservare e il buon esempio che siamo tenuti a dare al prossimo in ogni cosa». Povertà e buon esempio potrebbero riassumere i principi della gestione del patrimonio immobiliare consigliati dal santo di Assisi ai frati. Circa tre secoli dopo sant’Ignazio di Loyola affrontava lo stesso tema in relazione alle Costituzioni della Compagnia di Gesù. Nella sua autobiografia ci viene indicato che, tra tutte le deliberazioni emanate, due richiesero maggior impegno e preghiera. «Le questioni erano: se le nostre chiese potevano avere rendite, e se la Compagnia avrebbe potuto beneficiarne». Ovvero sant’Ignazio dedicò particolare discernimento alla relazione tra la nascente compagnia e i beni immobili, consapevole che «la povertà è il muro e la madre della vita consacrata», come ricorda Papa Francesco.

Oggi povertà e buon esempio sono da coniugare con il fenomeno di ridondanza delle proprietà degli istituti di vita consacrata. All’ampio incremento delle vocazioni religiose registrato tra il 1900 e il 1960 (in Italia il numero delle religiose quasi quadruplicò passando da quarantamila a 152 mila) corrispose l’ampliamento e la costruzione di nuovi immobili. Oggi il numero dei religiosi in Italia si sta avvicinando velocemente a quello dell’inizio del Novecento e, se la loro decrescita rimanesse costante, nel 2046 si arriverebbe alla loro scomparsa. Tale proiezione, limitata ed intuitiva, ha il solo scopo di evidenziare l’importanza del fenomeno che implica il difficile ridimensionamento delle proprietà immobiliari non raramente gestito con criteri di emergenza, più che in rapporto ai piani carismatici di ogni istituto e ai criteri di povertà e buon esempio.

Le comunità di vita consacrata si trovano spesso con un “portafoglio immobiliare” sovradimensionato rispetto ai propri bisogni, ma non a quelli delle comunità circostanti che ancora necessitano di quella cura e della testimonianza di salvezza che sono stati motivi rilevanti per la costruzione dei beni ecclesiastici. In Italia tra il 1985 e il 2015 sono state chiuse 7.292 case religiose, un numero pari al 40 per cento delle stesse. Quanti e quali altri beni delle comunità di vita consacrata sono interessati dal fenomeno della dismissione? Cosa avviene di questi beni? Come fare perché il carisma che ha fatto nascere e vivere queste opere possa continuare ad essere testimoniato nel futuro? Si tratta di un fenomeno rilevante che merita di essere osservato, gestito con criteri di povertà e buon esempio e “almeno” trascritto in un inventario. Sono questi i temi del prossimo convegno internazionale «Carisma e creatività. Catalogazione, gestione e progetti innovativi per il patrimonio culturale delle comunità di vita consacrata» che si terrà il 4 e 5 maggio 2022 a Roma presso la Pontificia università Antonianum, promosso dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica e dal Pontificio Consiglio della cultura.

Tra le novità è presente una call for paper aperta a ricercatori, alle comunità di vita consacrata e ai loro consulenti e collaboratori, alle fondazioni, alle associazioni e agli enti che gestiscono beni culturali di enti religiosi. Per partecipare, entro il 27 settembre prossimo si potranno «inviare proposte di intervento riguardanti tanto ricerche accademiche quanto esperienze e buone pratiche nell’ambito di catalogazione, gestione integrata, riuso, studi sulle tipologie di questo peculiare patrimonio culturale di interesse religioso (architettonico e artistico, archivistico e librario, immateriale)». Il convegno romano cercherà di raccontare le esperienze in atto e definire un primo censimento delle migliori pratiche. Per non fallire la valorizzazione e riuso del patrimonio delle comunità di vita consacrata sarà opportuno chiarire il fine ultimo di tale progetto. Nel novembre 2018, nel saluto ai partecipanti al convegno dedicato al riuso degli edifici di culto «Dio non abita più qui?», Papa Francesco ricordava che «i beni culturali sono finalizzati alle attività caritative svolte dalla comunità ecclesiale», frase che dovrebbe essere centrale nel pensiero del convegno. Il Pontefice prosegue: «Ciò è messo in luce ad esempio nella Passio del martire romano Lorenzo, dove si narra che egli, “avuto l’ordine di consegnare i tesori della Chiesa, mostrò al tiranno, prendendosene gioco, i poveri, che aveva nutrito e vestito con i beni dati in elemosina”. (…) Ciò costituisce un costante insegnamento ecclesiale che, pur inculcando il dovere di tutela e conservazione dei beni della Chiesa, e in particolare dei beni culturali, dichiara che essi non hanno un valore assoluto, ma in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri». Non si intendano queste indicazioni meramente come la possibilità di vendere per destinare il ricavato a buon fine (situazione limite sia per il diritto canonico che secondo il Pontefice nello stesso documento), ma proprio la destinazione diretta del bene a favore di situazioni di bisogno, capaci di rispondere ai segni dei tempi. Il saluto di Papa Francesco così si conclude: «Anche l’edificazione di una chiesa o la sua nuova destinazione non sono operazioni trattabili solo sotto il profilo tecnico o economico, ma vanno valutate secondo lo spirito della profezia: attraverso di esse, infatti, passa la testimonianza della fede della Chiesa, che accoglie e valorizza la presenza del suo Signore nella storia». Si ritiene che la valorizzazione e la tutela dei beni dovrà essere finalizzata ad accrescere il valore della testimonianza evangelica degli stessi.

Il termine valorizzazione collegato agli immobili ha due significati distinti. Può essere inteso come accrescimento del valore culturale — purtroppo spesso scollegato dal quadro di sostenibilità economica di tale processo — o come aumento del valore monetario e/o finanziario del bene (definizione propria in materia di real estate). In ambito ecclesiale occorre elaborare un concetto di valorizzazione dei beni materiali che includa la loro caratteristica specifica di beni ecclesiastici, quindi di essere subordinati ai fini della Chiesa in un quadro di sostenibilità ambientale, economica, sociale, architettonica, storica, artistica, spirituale, canonica ed ecclesiale. In relazione a ciò mi si conceda di presentare la definizione di valorizzazione stilata in occasione della tesi di dottorato sul riuso e la valorizzazione sociale dei conventi italiani di cui sono stata autrice: «La valorizzazione delle case religiose, quali beni ecclesiastici, deve avere come finalità quella di conseguire un valore sociale, carismatico ed ecclesiale possibilmente equiparabile alla situazione precedente, ma anche essere adeguata alle necessità contemporanee in conseguenza della variazione dell’utilità, della funzione e del valore sociale del nuovo uso. Ciò soddisfacendo criteri spirituali, di sostenibilità economica e ambientale a valere nel tempo e nel rispetto delle caratteristiche architettoniche dei manufatti e della loro storia».

Il consiglio a chi si affacciasse al convegno è quello di procedere usando come sguardo privilegiato quello offerto dalle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti nelle quali i criteri evangelici si esplicitano attraverso l’amore verso i fratelli, la terra e Dio. In particolare sarà opportuno adoperarsi per rispondere “al grido della terra”, mediante la riduzione dell’impatto ambientale dei beni, e al “grido dei poveri”, destinatari privilegiati dei riusi. I beni in eccesso in nessun caso dovranno restare sottoutilizzati o inutilizzati, tanto meno abbandonati, diventando così come il talento dell’ultimo dei servi; quest’ultimo servo infatti sarà buttato nelle tenebre e riceverà gli epiteti di malvagio e pigro. Si ricordi inoltre, come suggerisce il professor Luigi Bartolomei, che «qualsiasi azione sul patrimonio immobiliare ecclesiastico che non consideri una simultanea azione di coinvolgimento della comunità civile e territoriale, è un progetto che parte all’insegna del fallimento in quanto fallisce il potenziale sociale ed ecclesiale del bene stesso».

Una seconda questione rilevante è la definizione di patrimonio culturale delle comunità di vita consacrata. Ovvero il convegno in questione cosa individua come patrimonio culturale? In relazione all’ambito dei beni immobili — che è un ambito parziale rispetto a quello considerato dal convegno che si occupa di beni immateriali e materiali, mobili e immobili — la norma italiana risponde con i criteri dettati dalla legge Urbani secondo i quali un immobile deve aver raggiunto i settant’anni di età, l’autore del progetto deve essere deceduto ed il Mibac deve aver valutato affermativamente la verifica di interesse culturale. È evidente che la risposta della Chiesa non può prescindere dal suo fine più elevato che è quello di rendere testimonianza al Salvatore mediante l’applicazione di criteri evangelici. Ci si augura che il convegno si occupi non solo degli immobili tutelati dalle autorità statali ma anche di altri immobili che potrebbero non avere valore artistico, storico o culturale ma che risultano significativi rispetto ai criteri evangelici. Ad esempio un immobile destinato a mensa dei poveri è un bene evangelicamente rilevante a prescindere dalla sua storia e dalla sua forma. In conseguenza di ciò sarà opportuno tutelarlo adeguatamente e continuare a destinarlo a servizio dei poveri nel modo richiesto dai tempi attuali. Come buone pratiche si segnalano dei riusi di beni di comunità di vita consacrata affidati ad enti con finalità ideali capaci di usi coerenti con il carisma originario, ciò anche tra gli immobili realizzati durante il boom edilizio.

Infine una riflessione sul sostegno alla gestione immobiliare e alla tutela dei beni delle comunità di vita consacrata. La Chiesa italiana come riferiva Paolo Bizzeti, vicario apostolico di Anatolia, nell’incontro con la diocesi di Concordia-Pordenone dello scorso 21 gennaio 2021, vede «tanti vescovi oberati dal gestire un apparato economico e immobiliare complicatissimo», tanto da non riuscire a investire sull’innovazione, ovvero su azioni adeguate ai tempi attuali e a quelli futuri. Se così viene descritto il quadro della Chiesa gerarchica italiana che ha risorse umane qualificate — gli operatori degli uffici per i beni culturali —, programmi con indicazioni nazionali e risorse economiche destinate ai beni immobili, tanto più sono appesantite dagli immobili le comunità di vita consacrata a cui mancano questi supporti (vi si aggiunga la decrescita delle vocazione e l’innalzamento dell’età media ben più rapidi che tra il clero diocesano e, non di rado, una minore capacità economica). Si ritiene quindi essenziale la realizzazione di quanto auspicato dal cardinale Ravasi nell’intervista pubblicata ne «Il giornale dell’architettura» in relazione al convegno: «Il frutto più maturo che si auspica da questo appuntamento è la nascita di équipe di specialisti — architetti e storici dell’arte, esperti di amministrazione, di gestione e di diritto — che in ogni nazione si costituiscano come un gruppo di sostegno permanente a servizio delle comunità di vita consacrata. Un progetto che parta da quelle più fragili e isolate. Senza sostituirsi ai tecnici e ai referenti consueti di ciascuna comunità, questi specialisti dovrebbero agevolare una gestione ecclesialmente responsabile dei beni culturali, alleggerendone il carico alle comunità proprietarie e promuovendone cautamente una visione nuova, come oggetto della propria progettazione pastorale e missionaria».

Lo scorso 2 febbraio, in occasione della xxv Giornata mondiale della vita consacrata, Papa Francesco ricordava che «non possiamo restare fermi nella nostalgia del passato o limitarci a ripetere le cose di sempre». L’invito al cambiamento deve trovare i religiosi e i loro collaboratori pronti ad affrontare la sfida di «avviare processi più che occupare spazi» rispettando povertà e buon esempio e, speriamo, anche desiderosi di rispondere alla call del convegno «Carismi e creatività».

di Francesca Giani