Per non finire
con i profeti di sventura

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08 giugno 2021

Riprendere l’iniziativa. Di questo si tratta, in primo luogo. La lunga sosta intorno al capezzale della “morte di Dio” ci ha stremato abbastanza. La morte di Dio di cui parla Nietzsche, che la contemporaneità ha insediato come cifra negativa della sua emancipazione antropocentrica, è un gioco di prestigio della ragione con sé stessa: un “trucco” per far sparire “Dio” con un atto di destrezza intellettuale. E vedere l’effetto che fa.

L’esperimento ha esercitato il suo incanto, certamente, lasciando molti a bocca aperta. L’illusione dà la sua assuefazione, fatalmente: da un po’ di generazioni ci stanno facendo l’abitudine.

Noi ci siamo messi d’impegno, ovviamente: per escogitare a nostra volta qualche “trucco” che certificasse la sua esistenza in vita, riabilitandolo come oggetto di affezione che migliora l’esistenza. Nella realtà, la questione di Dio — come fronteggiare il sacro — è veramente questione di vita o di morte. Non un trucco. Nella storia — nella cronaca — si consumano sacrifici umani di proporzioni collettive. E si costruiscono vitelli d’oro intorno ai quali stordirsi di danze frenetiche ed esaltanti.

Il “sacro” appare nella decisione umana di ciò che è assolutamente inviolabile e di ciò che è assolutamente sacrificabile: nell’inconscio di ogni società umana, religiosa o laica che sia, questa decisione è inespugnabile. E i suoi effetti sintomatici sono clamorosi e sfuggenti al tempo stesso. Essere incapaci di discernerli è pericoloso. Sbagliare la decisione che deve fronteggiare l’ingiunzione del sacro, la scelta di ciò che va custodito a ogni costo e di ciò che va sacrificato per salvarlo, è fatale per la vita degli umani. Il nome di Dio, che non va mai pronunciato invano, è il nome al quale è affidato l’orientamento della nostra buona fede e il riscatto del nostro smarrimento. La rivelazione evangelica del nome di Dio punta tutto sulla sua incomprensibile affezione per la creatura mortale, che il Padre rende credibile destinando il Figlio crocifisso e risorto all’annientamento della violenza che abita la storia. E sbaglia le adorazioni, sbaglia i sacrifici, sbaglia i legami che decidono la vita.

È possibile restituire il pensiero umano alla causa della salvezza del “miracolo” tenero e struggente della vita che viviamo, abitiamo e siamo? È possibile restituire il pensiero credente all’emozione e alla profondità di questa complicità di “Dio” con il destino dei popoli? È possibile stabilire un’alleanza d’onore fra gli intellettuali del nostro tempo, credenti e non credenti, che si rifiuti di essere organica al gioco remunerativo delle parti, che li comprano e li vendono, per riconquistare le generazioni che vengono alle passioni liete di un pensiero appassionato per la causa comune della speranza umana?

Nel panorama dell’intelligenza europea e occidentale, che ha inventato il trucco della sparizione di Dio, ed eccitato un’altrettanto estrosa apologetica delle sue apparizioni, crescono, di giorno in giorno, uomini e donne di pensiero disposti a ritrovare la profondità della questione religiosa: in cui si decide il caso serio di ciò che deve essere sacrificato pur di non violare il giuramento prestato a ciò che deve ad ogni costo essere custodito, protetto, guarito, riscattato, condiviso e amato. Noi scommettiamo su questo segno. Lo facciamo come teologi cattolici, disposti a contrastare l’autoreferenzialità di un pensiero religioso che si affanna a enunciare se stesso, più che essere sollecito di annunciare “Dio”. Lo facciamo idealmente — e con tutta umiltà — dal “centro dell’apparato”: per testimoniare e rappresentare in primo luogo i molti uomini e donne che, “proprio lì”, conservano intatta la mitezza e la tenacia del servizio del vangelo e non della colonizzazione del mondo.

E siamo fiduciosi — con ampio beneficio d’inventario — che il dialogo del pensiero che guarda il mondo e la vita “dal punto di vista della redenzione” abbia reale possibilità di diventare la passione comune di una fraternità intellettuale che non fa eccezione di persona. Senza alcun pregiudizio della fedeltà alla condizione nella quale il Signore ci ha posto per pura grazia. E senza alcun timore che la testimonianza della fede sottragga dignità e rispetto all’interlocutore che il Signore ci chiede di ospitare. Per abitare insieme la terra. E non abitarla invano.

di Pierangelo Sequeri