Nella storia delle due ruote
Il pedalare degli ecclesiastici tra detrattori e promotori

In sella con l’abito talare

Il parroco di Gualtieri (estate 1964)
08 giugno 2021

L’utilità del velocipede per i preti chiamati a esercitare il ministero in territori molto estesi


Per il comune cittadino andare in bicicletta può rappresentare una sfida ardua, soprattutto se si trova ad affrontare una salita, ostica e ripida. Per il prete, in passato, rappresentava una sfida, altrettanto impegnativa, anche andare in bicicletta in discesa, per quanto essa potesse risultare agevole e confortante. Infatti la storia dimostra, con dovizia di eventi, che un fitto reticolato di riserve e pregiudizi ha ostacolato il sereno pedalare degli ecclesiastici.

Eppure vi sono persuasive ragioni logistiche a supportare l’opportunità dell’uso della bicicletta, per esempio, da parte di quei parroci chiamati ad esercitare il ministero in un territorio molto esteso. Quando alla fine dell’Ottocento si pose con forza il problema se fosse lecito agli ecclesiastici utilizzare il velocipede, Carolo Rizzi, parroco di Trezzo sull’Adda, rivolse un quesito — come ricorda il libro di Stefano Pivato Storia sociale della bicicletta (Bologna, il Mulino, 2019) — alla curia arcivescovile di Milano: «L’uso della bicicletta pel clero in campagna in cura d’anime e in quelle parrocchie sparse in lontani cascinali è permesso?». Non si fece attendere la replica dell’organismo ecclesiastico: Non sunt inquietandi, vale a dire non sono da biasimare quei sacerdoti che la usano. Però, va sottolineato, l’autorizzazione era solo parziale. L’utilizzo del mezzo, infatti, doveva attenersi strettamente alle incombenze del ministero. Insomma l’uso non doveva degenerare nell’abuso che, a sua volta, avrebbe potuto innescare «una soverchia dissipazione».

Il pronunciamento della curia milanese — ricorda Pivato — venne però contraddetto nel volgere di qualche mese. Durante il papato di Leone xiii furono emesse le prime condanne contro l’uso del “cavallo veloce”, che qualche giornale dell’epoca aveva proposto come mezzo per «moltiplicare le potenzialità delle prestazioni e per rendere più agevole e pronto il servizio in cura d’anime». I fabbricanti si resero conto che sarebbe stato assai poco protocollare che il servo di Dio si collocasse in cima ad «un vecchio ciclo dalle mastodontiche ruote colla veste talare ritorcigliata sulla pancia a uso grembiale dei cuochi». Di conseguenza proposero un modello particolare, denominato “levita”, che consentiva ai sacerdoti di «portare compostamente la veste». Si tratta dell’adattamento di una bicicletta da donna, il cui primo modello era stato prodotto nel 1892: privo dell’ingombro del cannone, il telaio consentiva di non scomporre più di tanto la veste talare.

Mentre sembrava che l’uso della bicicletta, limitato alle funzioni legate al ministero del prete, potesse diffondersi senza traumi, irruppe il divieto perentorio espresso, nel 1894, dal cardinale Giuseppe Sarto, allora patriarca di Venezia e amministratore apostolico della diocesi di Mantova, destinato a diventare di lì a poco Papa con il nome di Pio x . Il futuro Pontefice lanciò velenosi strali contro quella che veniva considerata una forma di neopaganesimo. Così scriveva il porporato: «So bene che non mancano fra gli stessi sacerdoti dei patroni eloquenti del velocipede o della bicicletta dichiarandola opportunissima per il clero; ma rispettando le opinioni di tutti io trovo necessario proibirne l’uso a tutti i sacerdoti della mia diocesi».

Questa netta presa di posizione non scoraggiò tuttavia i sacerdoti che alla bicicletta ricorsero con sempre maggiore frequenza. Ecco allora che sulla scena irruppe la Congregazione del concilio (l’organo chiamato a vigilare sull’applicazione e sull’osservanza dei decreti disciplinari), la quale — visto la crescente popolarità presso gli ecclesiastici del velocipede — stabilì che la bicicletta non poteva essere permessa ai sacerdoti, al pari della frequentazione delle taverne e delle osterie, degli spettacoli teatrali, della caccia o del gioco d’azzardo.

In questo dinamico e sapido scenario spicca — sottolinea Pivato — la figura del vescovo cremonese Geremia Bonomelli che, nel 1905, con la lettera pastorale La Chiesa e i tempi nuovi sostenne apertamente la necessità di una riconciliazione fra la Chiesa e la civiltà moderna. Fedele a questo suo sentire, il presule, all’indomani della proibizione dell’uso della bicicletta espressa dai cardinale Sarto, così intervenne nel dibattito indirizzando una memoria alla Curia romana: «In questa mia diocesi vi sono parrocchie vastissime, che hanno il circuito di 10, 15, 20, 25 e più chilometri, con buona parte della popolazione che dista uno, due, quattro, sei e più chilometri dalla residenza parrocchiale. Non tutti possono avere cavallo e carrozza, e per questo alcuni parroci e coadiutori usano delle biciclette per recarsi a visitare gli infermi. Il vantaggio ottenuto da questo mezzo è grande, e già più volte, soltanto per la velocità di questo mezzo di trasporto fu possibile amministrare i sacramenti ai moribondi».

Sulla scia della querelle tra sostenitori e detrattori del velocipede, la bicicletta, tra l’Ottocento ed il Novecento, finì, a suo modo, per assurgere a simbolo di una concezione della società. Più precisamente essa si configurò come segno distintivo della modernità e come espressione del modernismo, cioè quella corrente riformista (in odore di eresia) che all’interno della Chiesa cattolica sosteneva la necessità di un confronto con la civiltà del Novecento. Chi avanzasse riserve circa la liceità di questo solenne status della bicicletta è smentito dalla curia vescovile di Piacenza che, nel 1910, segnalava che alcuni sacerdoti della diocesi, per confermare la propria identità di ”modernisti” si erano comprati, in segno di sfida, delle biciclette e, dettaglio non certo marginale, «contro la proibizione ne fanno uso».

di Gabriele Nicolò