Il dantismo di Pier Paolo Pasolini

Quella lagrimetta
di pentimento

Franco Citti nei panni di Vittorio Cataldi protagonista di «Accattone» (1961)
07 giugno 2021

Pubblichiamo stralci da una delle relazioni presentate al convegno «Dante Alighieri nel 700º anniversario della morte», tenutosi all'Università europea di Roma.

Tra i personaggi della Divina Commedia, Pier Paolo Pasolini predilige Buonconte da Montefeltro, incontrato da Dante nel v canto del Purgatorio; ferito a morte nella battaglia di Campaldino, viene conteso tra l’Angelo del Signore e il demonio; si salva per una sola lagrimetta di pentimento, invocando Maria. La potenza visionaria dei versi sul ghibellino Buonconte — scrive Sabrina Titone, appassionata studiosa del dantismo del Novecento — deve aver colpito Pasolini nell’intimo, tanto da inciderli nella memoria, indurlo a citarli più volte, rielaborati e riscritti. Un’ampia bibliografia recente ha focalizzato il dantismo di Pasolini nelle diverse fasi della sua opera, fin dalle poesie friulane; a partire da una condizione di esule che lo avvicina al Sommo Poeta: «Dante ha passato una straziante vita in esilio, per rispondere di no a simili pretese dell’establishment».

Dante non cessa di costituire un punto di riferimento anche dopo il decennio del realismo borgataro culminato con il primo film del 1961 Accattone; basti pensare alle raccolte con titoli danteschi Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar. Sul versante saggistico, in coincidenza con le ricorrenze del centenario della nascita di Dante (1965), Pasolini pubblica su «Paragone» il saggio La volontà di Dante ad essere poeta che scatena un acceso dibattito tra il poeta e i dantisti di professione.

Due progetti, rimasti fermi ai primi due canti, intendevano riscrivere la Divina Commedia negli anni del nascente consumismo di massa: La Mortaccia, datato 1959, in cui la prostituta Teresa incontra Dante tra le misere borgate del Tiburtino e la Divina Mimesis, di impianto più complesso a partire dall’oscura crisi dell’io del poeta, perduto nella selva oscura del bieco capitalismo.

Materiali che rifluiscono, almeno idealmente, nel magma di Petrolio, romanzo incompiuto, dove i richiami alla Commedia risultano molteplici.

Al biblista Andrea Carraro scrive: «Io mi sono posto come principio umano e artistico l’obbligo di non chinare gli occhi di fronte alla vita mai, neanche di fronte alle sue miserie e alle sue impudicizie. E bisognerà ancora una volta evocare l’ombra di Dante che nominava tutto».

Accattone, al secolo Vittorio Cataldi, protagonista del film omonimo, rimane la figura più compiuta in cui avviene, a livello elementare, una lotta tra forze opposte che richiama, per analogia, l’episodio di Buonconte. La pellicola, infatti, reca in esergo i versi 104-107 del v del Purgatorio: «l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ‘l mi toglie”».

Vittorio all’inizio del film propone ai compari, per cercare di conquistare un pranzo abbondante a spese altrui, la scommessa di gettarsi dal fiume in piena digestione. Qualche giorno prima aveva tentato la stessa drittata Barberone ma era annegato. Accattone riesce nell’impresa: nemmeno il fiume se lo porta via. La precisa allusione al v del Purgatorio è lampante nella battuta seguente di un ragazzo di vita: «Tu che dici, chi se l’è preso, er Barberone, Gesù Cristo o il Diavolo?».

Nella prima redazione della sceneggiatura, ancora pochi fogli, prima di trovare il produttore, Pasolini pensa alla morte di Vittorio come un momento capovolto rispetto all’inizio: si getta dal ponte sul Tevere per uccidersi, braccato dalla polizia, dopo un furto di minima entità. Come Buonconte, il suo corpo doveva essere trascinato dalle acque a compimento, però, di una vita senza redenzione.

Nella misera vita di Vittorio, ridotto a fare il magnaccia per la sua incapacità di lavorare e di onorare la famiglia, irrompe Stella immagine di purezza. Con lei sembra aspirare seriamente a redimersi, ha trovato la guida dantesca. Tra ironia e sorpresa, nel primo incontro, alla fabbrica delle bottiglie alla Borgata Gordiani, si rivolge a lei chiedendogli di indicargli il cammino, verso un piatto di pasta e fagioli.

Ma l’istinto malavitoso, l’aspirazione al facile guadagno, gli offuscano la mente: costringe subdolamente la ragazza a prostituirsi. Quando sul barcone del Tevere Vittorio consegna la ragazza rassegnata a gente danarosa, la prostituta Amore commenta dantescamente: «Anche tu ce sei cascata... E ancora, no lo sai! / Eh! Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!». Vittorio, ferito nell’intimo per aver condotto Stella tra le braccia degli sconosciuti avventori, tenta di gettarsi nel Tevere, ma trattenuto dagli amici, scende poi sulla riva del fiume e si deterge il volto con l’acqua, imitando il gesto di Virgilio che, nel i del Purgatorio, deterge il viso di Dante per prepararlo all’ascesa verso la luce. Accattone ha però un nuovo scatto rabbia e si insudicia la faccia con la sabbia sporca. Il suo volto, commenta la sceneggiatura, non ha più nulla di umano. Il lato demoniaco se lo è di nuovo portato via.

Pasolini, in una intervista a Tullio Kezich, indica lo stato confusionale di Vittorio che non sa di essere innamorato e non lo ammette, anche quel poco di luce che rade i suoi sentimenti non avrà alcun effetto positivo, fino alla morte.

I tentativi successivi di togliere Stella dalla strada lavorando, lo rigettano nella rabbia disperata. Sceglie ancora la via del guadagno facile, trovando la morte, inseguito dalla polizia sul ponte di Testaccio, cadendo dalla moto rubata. «Mo sto bene», mormora prima dell’ultimo respiro. E alcuni commentatori hanno creduto di vedere una «lagrimetta» bagnarli timidamente il viso. In realtà Pasolini nega ogni riscatto al suo personaggio. Semmai, in chiave dantesca, come per il suo stesso regista in Proposito di scrivere una poesia intitolata: I primi sei canti del Purgatorio, lirica di Trasumanar e organizzar, quello di Accattone rimane un desiderio radente di luce.

A quel non aveva più «nulla di umano» del volto demoniaco e rabbioso di Accattone si può contrapporre uno dei momenti più equilibrati e luminosi della carriera cinematografica di Pasolini, il finale di Che cosa sono le nuvole? corto del 1967.

Usciti all’aperto dopo aver recitato l’Otello, le marionette umane, sfigurate e malmenate dal pubblico inferocito dopo l’uccisione di Desdemona, sono ridotte a fantocci. Vengono gettate in una sudicia scarpata dall’immondezzaro-cantante, Domenico Modugno, che intona una strofa memorabile: «Tutto il mio folle amore / lo soffia il cielo / lo soffia il cielo».

Una passione per la vita e la natura che si esprime, quasi allo stato nascente, quando Otello-Ninetto domanda che cosa sono quelle soffici forme apparse nell’azzurro del cielo, con un sorriso contagioso sulle labbra. Sono le nuvole, risponde con un sospiro pacificato il saggio Totò-Jago. «Ah, straziante e meravigliosa bellezza del creato». I burattini tornano umani, commenta Pasolini, trovano il loro paradiso.

di Fabio Pierangeli