Approfondimenti

Tre milioni di morti
che il mondo non vede

Immagini dalle miniere di carbone di India e Pakistan
04 giugno 2021

Le chiamano morti bianche. L’International Labour Organization (Ilo) ne stima, ufficialmente, 2,8 milioni all’anno ogni anno.

Morire di lavoro non è, dunque, un incidente: con questi numeri, sottostimati come avverte l’ esistenza delle «morti grige» che sfuggono ad ispezioni e conteggi, è un costo socialmente accettato.

L’Ilo, agenzia delle Nazioni Unite che unisce governi, imprese e sindacati di 187 Paesi, stima inoltre che tanto dolore e privazione umana abbiano un costo monetizzabile: il 3,94% del prodotto interno lordo mondiale.

Ed anche qui occorre calcolare la tara della sottostima. Come dimostra, ad esempio, la natura della rete mineraria mondiale (solo in parte regolata da concessioni, in diversi Paesi non regolata, se non addirittura gestita in «partenariato» o desistenza con la criminalità organizzata) l’entità finale del problema sfugge ai radar. Una sola cosa è certa. I numeri dell’Ilo, solidi, affidabili, sono la soglia minima sotto la quale non scendere. E non dimostrano solo un’inaccettabile ingiustizia ma anche un pessimo affare che arricchisce pochi a spese di tutti.

La percezione del problema in questi termini (umani ma anche di sviluppo economico) emerge dallo sforzo dell’Ilo di dare al mondo regole condivise fra i tre «portatori di interesse» del mercato del lavoro globale: il lavoratore, l’imprenditore, lo Stato. Ad esempio in 40 codici di pratiche per la tutela di salute e sicurezza. La loro applicazione piena e diffusa è, però, ben lontana.

Per il settore minerario, ad esempio, la Safety and Health in Mines Convention (nota come Ilo C176), adottata già nel 1985 dalla Conferenza internazionale sul lavoro, è stata ratificata solo da 34 Paesi membri. Altri 153 non l’hanno ancora fatto. E il settore minerario, del carbone in particolare, è quello a maggiore costo umano, ambientale e, quindi, economico. E qui emergono un nodo ed un paradosso.

Il carbone, spina dorsale energetica di un sistema di produzione fallito dal punto di vista ambientale, dovrebbe essere in dismissione per raggiungere l’obiettivo del taglio globale delle emissioni industriali entro il 2030. Fin qui il nodo. Il paradosso è che il suo prezzo è previsto in ascesa, insieme alla domanda. E proprio la produzione di carbone e la sua esportazione sono motivo di attriti geopolitici, ad esempio fra Cina e Australia. Il carbone continuerà, dunque, per un pezzo ad essere un problema. Con i suoi costi umani, nello specifico per la sicurezza e la salute di chi lavora.

Due esempi, uno dal circuito regolato da concessioni, l’altro da quello più difficilmente controllabile dove abbondano i siti «spontanei». La Colombia, il primo. Il Pakistan il secondo. Due Paesi che, stando al sito dell’Ilo, non hanno ancora ratificato la convenzione C176 per la sicurezza e la salute la cui premessa è che il lavoro in miniera va considerato, tacitamente, un grave pericolo.

In Colombia, al confine con il Venezuela, nella provincia della Guajira, c’è il sito di El Cerrejón, la più grande attività estrattiva di carbone dell’America Latina e la decima al mondo: è gestito da un cartello multinazionale. L’anno scorso, nel pieno della pandemia, c’è stato il più lungo sciopero della storia dell’insediamento minerario, 91 giorni. La tregua fu firmata fra le parti a novembre 2020.

Ma è dal 5 maggio che il conflitto, con la richiesta di migliori condizioni di lavoro, è riesploso. Proteste e blocchi stradali si susseguono. Alle azioni degli operai si affiancano anche quelle dei residenti che vedono nella miniera la causa della perdita delle loro terre, occupate ed inquinate.

Il 25 maggio un nuovo sciopero ha paralizzato per giorni la produzione e la spedizione nel mondo dal terminal che serve la miniera e la collega alla catena delle spedizioni. Il numero totale dei lavoratori del Cerrejón, un network di siti che si è espanso negli anni, è di circa 8.400 persone fra dipendenti e contractors. L’accusa alla compagnia è quella di imporre, in piena pandemia, condizioni di lavoro peggiori e rischiose. La nuova organizzazione del lavoro, lanciata poco dopo la tregua di novembre, è stata ribattezzata dal sindacato Sintracarbon «Death Shift»: tra le altre cose, si sostiene, obbliga i minatori a lavorare anche se malati. E porterebbe, in prospettiva, alla cancellazione di 1.200 posti di lavoro.

In Pakistan, riferisce IndustriALL, sigla sindacale globale, i lavoratori, anche giovanissimi, si calano ogni giorno in «death traps», trappole mortali. Il Pakistan ha una delle maggiori riserve di carbone al mondo: la risorsa, largamente usata anche per necessità interne, è sfruttata da un sistema privato di compagnie piccole o medie. Avere cifre precise sulle condizioni di chi lavora in miniera non è possibile. Non solo il Pakistan non ratifica la convenzione Ilo. Il settore, denuncia sempre il sindacato, non ha regole tranne quella del lavoro per dieci ore al giorno in condizioni di pericolo. La stima dei costi umani la dà sempre IndustriaALL: una media di cento morti bianche l’anno (per tacere di quelle «grige»). Nell’anno della pandemia il doppio, almeno 208 ufficiali. Migliaia i feriti calcolati, gravissimi e diffusi i danni alla salute, anche a quella mentale.

La risorsa energetica «sporca», quella che la comunità internazionale dice di voler accantonare entro tre decenni, continua intanto ad essere richiesta. I prezzi salgono. La sicurezza del lavoro no.

di Chiara Graziani