L’omaggio a Maria nella tradizione popolare, dai «cunti» alle ballate in dialetto romanesco

Ciliege rosse come il sangue

 Ciliege rosse come il sangue  QUO-124
04 giugno 2021

Oltre ai sacri riti popolari devozionali, durante i quali i fedeli pregavano, cantavano litanie e arricchivano, nel mese di maggio, le statue raffiguranti la Vergine Maria con odorose corone di fiori, vi sono tracce della stessa profonda devozione anche nella tradizione orale del componimento epico-lirico. A Valerio Billeri, cantautore folk/blues romano con dieci dischi all’attivo, già conosciuto per il contributo artistico apportato nella riscoperta dei sonetti di Belli con l’album del 2019 Er Tempo Bbono, 9 Ballate di G.G. Belli, bisogna concedere il merito di aver intrapreso un inedito viaggio a ritroso, riportando in auge quella parte della produzione folclorica nostrana legata al costante affetto nutrito dal popolo per la Madre di Dio.

Ispirato dalle ricerche filologiche del maestro Roberto De Simone, che ebbe la felice intuizione di musicare un cunto natalizio napoletano, un testo antico narrante la secentesca Leggenda del lupino, affidandolo poi alla voce e all’interpretazione dell’eccelsa Concetta Barra, Billeri ha difatti deciso di riscriverlo in dialetto romanesco e di inserirlo nel suo repertorio, senza distaccarsi dal genuino e personalissimo ballad style. In un arrangiamento strumentale volto a impreziosire la storia raccontata, si snoda la fuga di Maria in Egitto, con il piccolo Gesù tra le braccia, avvolto in un logoro manto, mentre si svolge il massacro indetto dal re di Giudea, noto come la strage degli innocenti (Matteo 2, 16): «E a Betlemme Erode fece una bando / contro ogni creatura almeno de due anni (...) E l’ommini der re con gran furore / e a ogni mamma in petto se spezza er core».

Nonostante sia indubbia la presenza di Giuseppe, la narrazione è incentrata totalmente sulla giovane madre che cerca disperatamente di proteggere suo figlio da morte certa. Dio, però, non la lascia sola: «Fuggi Maria verso la campagna / che l’Angelo dar cielo t’accompagna!». Simbolo universale dell’amore materno, Maria è qui, nell’immaginario popolare, una donna spaventata, stremata dalla fatica, che, malgrado si senta ormai perduta, con tenacia si affretta, pur di salvare il bambino stretto a sé; l'Ancella del Signore dalle umili origini che consacrò se stessa al volere divino.

Commuove l’ultima strofa, un amaro presagio, pregno di dolore, quello lacerante di una Madre che già sa che vedrà perire il proprio figlio: «Oh, dolce pino tu che c’hai protetto / un giorno avrai a te mi fijo stretto». Il generoso pino, che apre le maestose fronde per dare riparo alla Sacra Famiglia, sarà muto testimone del calvario della crocifissione di Cristo.

Nella tradizione delle ballate le piante variano nelle singole aree geografiche, in quanto viva espressione individuale; ne La carola del ciliegio, una cantilena religiosa natalizia anglo-irlandese, raccolta i primi anni del secolo xix , vi è un ciliegio dai frutti maturi che la Vergine, incinta di Gesù, in viaggio per Betlemme con Giuseppe durante il censimento imposto da Augusto, vorrebbe assaggiare, in un tenerissimo momento di semplice quotidianità: «Coglimi una ciliegia, Giuseppe». Immortalato, tra l’altro, dai versi di Angelo Branduardi ne Il ciliegio del 1977: «Lei venne un mattino / A chiedermene i frutti /“Devo avere quelle ciliegie / Perché presto un figlio avrò”».

Allora parlò il bambino «dentro il grembo di sua madre: / “Si pieghi allora l'albero più alto / perché mia madre ne colga”. / Allora si piegò l'albero più alto / fino alla mano di sua madre»: secondo William Butler Yeats, «Il Creatore del mondo divenuto già carne, ordina dal grembo della Vergine, e la sua creazione», la natura florida, gli obbedisce. Un’ode, nel miracolo, alla bellezza del creato, alla ciclicità della vita; una celebrazione della maternità e del mistero dell’Incarnazione nella tradizionale lirica medioinglese. Una Madre «così mite e dolce» da poterla immaginare col volto serafico di Miriam De Majo, che la interpretò nel lungometraggio Mater Dei del 1950, non esente da quella fresca e timida spontaneità, nella quale il popolo devoto si identifica. Ed eccolo quel concetto di “primitività”, come lo definisce Sergio Baldi, per cui il popolo diviene autore stesso dei canti, nei quali esprime quei sentimenti, traboccanti d’innocenza e purezza, insiti in lui, non più mero depositario dell’arte dei menestrelli. Diversamente dalla nostrana Leggenda del lupino, nella penultima strofa della carola è Cristo infante che diviene annunciatore, seduto sulle ginocchia di Maria, della propria morte, già evocata dal “rosso come il sangue” delle ciliegie. «Oh, io sarò morto, mamma / come i sassi del muro / oh, i sassi della strada, mamma / tutti quanti piangeranno per me».

di Marta D’Ambrosio