Homo ludens

L’inafferrabile necessità
del gioco

Un fotogramma dal capolavoro di Ingmar Bergman «Il Settimo Sigillo» (1957). Il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) gioca a scacchi con la morte (Nils Bengt Folke Ekerot)
02 giugno 2021

Nel 1967 Guy Petitdemange, già direttore della prestigiosa rivista «Archives de Philosophie» e instancabile tessitore del pensiero filosofico e delle sue costellazioni, da Derrida e Benjamin, a Lévinas a Rosenzweig, a Certeau, a Adorno, scrive la voce “gioco” per il Dictionnaire de spiritualité, la monumentale impresa editoriale delle edizioni Beauchesne. In questo breve testo, sorprendente soprattutto considerando il decennio cui appartiene, Petitdemange, partendo dall’analisi di un capolavoro dello storico Huizinga, «Homo ludens» e passando da Eraclito a Nietzsche, da Platone alla patristica, da san Francesco d’Assisi ai mistici, elabora una riflessione composita e articolata sull’esistenza umana. Attraverso il prisma del gioco, che ne è una manifestazione imprescindibile e ineliminabile. Proponiamo la traduzione italiana di alcuni stralci del testo.

Il gioco è indubbiamente una delle più ricche e complesse nozioni antropologiche. La storia delle religioni, l’etnologia, la sociologia mostrano la funzione che aveva nelle culture antiche e che ha ancora per l’infanzia. Ma è davvero solo qualcosa che appartiene al passato, la memoria di qualcosa che è scomparso, superato da una saggezza che non ne ha più bisogno? A questo proposito l’apologia unilaterale del lavoro, della scienza, del guadagno, in cui si afferma con forza lo spirito di serietà, finisce in un’impasse. In forme diverse, che si tratti della festa, del tempo libero, della spontaneità, che sia o meno frutto della riflessione, oggetto della politica o lasciata alle singole iniziative, fortemente regolata o invece anarchica, esiste comunque una modalità dell’agire libero, affrancato da qualunque tipo di necessità, gratuito: e proprio questo è, in un senso molto ampio, il gioco, il quale fa tutt’uno con l’esperienza umana e ne esprime una dimensione per certi versi irriducibile. L’uso linguistico del termine mostra, del resto, quanto sia pervasivo e quanti significati finisca per coprire: il gioco di un meccanismo, delle articolazioni, delle alleanze, un gioco di sguardi, i giochi dell’amore, prendersi gioco di, stare al gioco, fare il doppio gioco, giocare sporco, ecc.

In linea generale, la legge che regola il comportamento dell’uomo ragionevole, pacatamente intento nel suo lavoro, riposa su una sorta di postulato: il reale è oggettivamente complesso, ma non è ingannevole. Per vivere bene è sufficiente allestire con il mondo e con gli altri una rete di relazioni che, rispettando questa complessità, abbia lo scopo di condurre, tappa dopo tappa, a un obiettivo di volta in volta parziale, ma chiaro e accessibile; la vita e il mondo si costruiscono a poco a poco, a forza di tempo, a forza di applicazione. In un contesto simile, il gioco invece evoca la sospensione, lo scarto, la rottura. Le motivazioni e le finalità del nostro agire vacillano e si indeboliscono. Il solo nominare il gioco lascia intendere che il reale, finora considerato sicuro, potrebbe rifiutarsi a una conquista così semplice e lineare, che le scelte dovrebbero essere riformulate, che il senso non ha affatto la solida evidenza che gli si attribuiva. Tanto come concetto generale (il gioco), quanto nella forma di figure concrete (i giochi), il gioco non è quindi solo il nostro passato. È una nozione che richiama costantemente a una revisione del comportamento, alla flessibilità, alla vigilanza, contesta le percezioni unilaterali. Non bisogna dunque essere troppo sbrigativi nella sua analisi, perché il suo significato è qualcosa di molto serio. Cerchiamo quindi di attraversare e analizzare progressivamente i diversi livelli in cui possiamo ritrovare l’ambiguità di questa nozione.

[...] In un’opera classica, molto discussa ma di grande valore, J. Huizinga ne ha sintetizzato in poche battute i tratti caratteristici: «Considerato per la forma, si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera: conscia di non essere presa “sul serio” e situata al di fuori della vita consueta […]; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole e suscita rapporti sociali che […] accentuano […] la loro diversità dal mondo solito» (Homo ludens p. 17). Oppure: «il gioco è una lotta per qualche cosa», «può “rappresentare” una lotta per qualche cosa». Capace di differenziarsi in molteplici attività, il gioco indica lo stile di comportamento dell’uomo in quanto libero, non ancora trascinato dal ritmo dei bisogni che lo assediano e gli fanno perdere la sua unità.

Se la cultura è un equilibrio tra necessità e libertà, il gioco è superiore e anteriore a ogni cultura. L’uomo ha iniziato giocando, consegnandosi, originariamente, al dispendio gratuito, a un’azione che non ubbidiva al bisogno, ma alla decisione e al desiderio di vincere. Il gioco, in un simile contesto, si è completamente impossessato dell’attività umana, tessendola dall’interno, investendola, dandogli il ritmo, la misura, il senso, un’attività che è sempre pienamente integrata in un insieme di rappresentazioni e che si dispiega senza scarti, all’interno di un quadro spazio-temporale chiaramente circoscritto. Può essere solo bella. In questa prospettiva, uomo e gioco sono insomma sinonimi e il gioco segna precisamente: «il carattere sopralogico della nostra situazione nel cosmo» (ibidem p. 6). Poi è arrivata la storia, il moltiplicarsi dei bisogni, gli interessi si sono precisati, gli imperativi del calcolo hanno diviso l’unità primaria dell’agire. Huizinga però vede una conferma della sua ipotesi nel fatto che, malgrado tutto ciò, è ancora possibile ritrovare, anche nelle forme più serie della cultura (il diritto, la politica, la religione, la guerra, la filosofia) le vestigia del gioco primordiale. Le manifestazioni della cultura sono derivate, sono successive e rappresentano, attraverso le diverse epoche, l’armonia difficile tra la forma ludica originaria, costitutiva, e le tecniche di adattamento, di contabilizzazione, di possesso imposte dalla durata, dall’interesse, dalla proliferazione indefinita del bisogno.

[...] Considerare il gioco come un’attività primordiale, sintetica, compiuta, è indubbiamente un tentativo di spiegazione. Però si può adottare anche un altro punto di vista: guardare il gioco come un esercizio specifico, come una realtà che si può descrivere. In questo modo, per quanto varie siano le figure empiriche che è suscettibile di assumere, possiamo coglierne la struttura fondamentale. Sono tre gli elementi che la costituiscono, articolati gli uni con gli altri.

Prima di tutto, il gioco si dà una sfera propria, si crea uno spazio originale, a margine del reale si costruisce attraverso uno scarto. Giocare esige sempre la sospensione delle coordinate ordinarie: il gioco può stare solo nello spazio a lui riservato. Comincia con uno spostamento di linee, con una nuova configurazione, con una topografia inedita che non considera o che stravolge la normale disposizione delle cose. In secondo luogo, non ricerca l’utile e non persegue nessun fine al di fuori di se stesso; non ha altra ragione se non se stesso. Anche se comporta delle conseguenze, il gioco in fondo ha come scopo solo l’azione del gioco in sé, è il suo proprio fine. Per concludere, costituisce una totalità, fa sistema. Anche il gioco più semplice e più anodino si presenta come un insieme coerente e chiuso, cioè retto da regole arbitrarie ma ben congegnate, più o meno numerose, più o meno difficili, ma che si impongono nella loro totalità. Il gioco è la regola: essa determina chi gioca, il funzionamento, la serie di operazioni, il sistema delle conseguenze. È un’attività governata dalla convezione che si impossessa totalmente di chi gioca, collocandolo provvisoriamente in un contesto artificiale e separato in vista di un fine che non ha nulla a che vedere con l’ordinario. Definisce una sorta di seconda realtà, doppia l’orizzonte, inventa un altro universo accanto a quello del reale familiare.

Eccola, dunque, la struttura, semplice, che istituisce il gioco come tale. Questa definizione particolare del gioco pone il problema della sua funzione.

di Guy Petitdemange