Parole e immagini nell’episodio della Visitazione

La tenerezza dell’incontro
tra Maria e Elisabetta

Panello di destra del Trittico dell’Annunciazione di Rogier van der Weyden (1434)
31 maggio 2021

Noi non conosciamo i suoni delle parole in aramaico pronunciate dalla Madonna. Conosciamo invece quelli di alcune parole pronunciate dal Cristo (in occasione di miracoli o quando è morente sulla croce; suoni che hanno ispirato i musicisti nel corso dei secoli). Ma c’è un’eccezione, riguardo a Maria: conosciamo infatti i suoni in aramaico di due nomi propri. Uno è quello di Gesù, come lo chiamiamo noi che in tale traslitterazione in italiano, e in altre lingue, dal latino Jesus — nonostante tutto l’amore per queste due sillabe — abbiamo quasi completamente smarrito il suono originario, caratterizzato da una successione vocalica interrotta solo dalla consonante la “esse” (Yehoshua, ecco il vero nome di Gesù, che significa «Dio salva»); chissà quante volte la Madonna deve aver chiamato il figlio con questa dolcissima successione di dittonghi e vocali. La seconda parola è il nome di una sua parente, Elisheba (Elisabetta), che significa «Dio è perfetto», o forse «Dio è fedele». Ed è di certo con questo suono che Maria chiama la parente, una volta giunta all’ingresso della casa di lei, nella «regione delle alture», dice il Vangelo, per la quale «senza indugio si è messa in viaggio», una volta ricevuta l’annunciazione: forse perché dalla miracolosa gravidanza in età avanzata di Elisheba, che tutti dicevano sterile ed è invece al sesto mese, cerca un segno della stessa propria incipiente gravidanza all’ombra dell’Altissimo.

Questo episodio va sotto il nome di Visitazione ed è una importante ricorrenza del calendario cattolico, che quest’anno cade nell’ultimo giorno di maggio. Di esso si conosce la tenerezza dell’incontro fra le due donne, che — a partire soprattutto dal medioevo — entra a far parte della soggettistica pittorica mariana; in essa Elisheba viene spesso rappresentata coi capelli bianchi e il ventre prominente; accanto a lei, la giovane Maria sembra la figlia.

Accadde — si legge nel Vangelo di Luca — che quando Maria entrò a casa di Elisabetta e questa ebbe ricevuto il suo inatteso saluto, «il bambino le sussultò in grembo; Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?». Al richiamo Elisheba! Elisheba! da parte di Maria è dunque collegata una potente effusione dello Spirito Santo, non del tutto sottolineata nella letteratura cattolica, pur se parzialmente riportata nella preghiera dell’Ave Maria. Elisheba dapprima è solo capace di emettere un grido; poi lo spirito le restituisce la parola per esprimersi profeticamente attraverso lei, riguardo a una gravidanza che non potrebbe esserle già visibile nella parente; la chiama infatti «benedetta tra le donne e benedetto il frutto del seno tuo», nonché «madre del mio Signore». Non basta: da madre a madre, racconta subito dopo un altro segno fisico di questa prodigiosa agnitio domini: «ecco, appena mi è giunto agli orecchi il tuo saluto, il bambino mi ha sussultato di gioia in grembo»; sono parole di esultanza, in ogni senso, anche etimologico.

Nulla dunque nella creazione rimane indifferente all’approcciarsi del Creatore, per citare san Giovanni della Croce e altri mistici: la gioia esplode al suo riconoscimento, nelle parole della madre Elisheba (Dio è perfetto) e nel sobbalzare in lei del feto Jeho’hanan/Giovanni (Dio è pietoso).

Ecco perché anche noi potremmo tornare a ripercorrere, in questa grande ricorrenza della Visitazione, magari dopo le prime frasi angeliche dell’Ave Maria, lo stesso spirito di agnizione di Dio ripetendo gli esatti suoni in aramaico del nome Elisheba, che lo scatenano. Sono suoni che ci riportano a 2.000 anni fa. Sono suoni senza tempo. Sono i primi suoni al cui ascolto la creazione, posseduta dallo Spirito, riconosce e profetizza l’Emanuele, il Dio-con-noi.

di Giovanni D’Alessandro