Sulla teologia mistica di Iacopone da Todi

Un Dio che si annichilisce
per esaltare l’uomo

Paolo Uccello «Ritratto di Jacopone da Todi» (1436, particolare)
29 maggio 2021

È noto come la polemica religiosa che non di rado pervade l’anima accesa di Iacopone da Todi (in epoca moderna, ad esempio, fu la Lauda O papa Bonifazio — satira mordace contro Bonifacio viii — a bloccare l’iter del processo che l’avrebbe dovuto portare sugli altari), abbia spesso finito per convogliare gran parte delle attenzioni degli studiosi, con il rischio di far passare in secondo piano altri aspetti — viceversa centrali — della poetica del grande Tuderte, anima accesa di amor di Dio, cosciente fino in fondo della propria “nichilità”.

Un volume di Alvaro Cacciotti (La teologia mistica di Iacopone da Todi, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2020, pagine 218, euro 24), nel quale sono raccolti diversi suoi saggi pubblicati nel corso degli anni, mette ora a tema il misticismo del frate e poeta umbro, cantore di un Dio che non schiaccia l’uomo, ma l’esalta annichilendosi Egli stesso, facendosi cioè uomo e svuotandosi di ogni prerogativa divina. Un Dio che è Amore e nell’amore va compreso e accolto: «Amor de caritate, / perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore» (Lauda 89). Nell’ottica di Iacopone, l’uomo deve perciò entrare nel dinamismo divino, privandosi di ogni attesa nei riguardi di Dio e degli altri, per trovarsi pienamente consonante con Lui: «De te ià non volere / se non quel ne vòle Isso; / perdir tutto te stesso / en Isso trasformato» (Lauda 92).

Ha dunque ragione l’autore quando afferma che, per quanto attiene al tema della “nichilità”, il laudario iacoponico «risulta di fatto non un “manuale” su Dio, ma la “predicazione” sull’uomo da Lui amato».

È un Dio di amore, in effetti, quello che Iacopone contempla e propone, un Dio che ama l’uomo e soffre per le sue ribellioni e i suoi colpi di testa. L’itinerario offerto dal poeta è caratterizzato da un faticoso spossessamento, poiché l’appropriatio della propria volontà fu alla radice del peccato del primo uomo e di tutti coloro che di quella pretesa continuano ad essere schiavi.

Il poeta mostra in tal modo piena consonanza con Francesco d’Assisi, che nell’Ammonizione ii , dedicata a Il male della volontà propria, afferma: «Mangia, infatti, dell’albero della scienza del bene colui che si appropria la sua volontà e si esalta per i beni che il Signore dice e opera in lui; e così, per suggestione del diavolo e per la trasgressione del comando, divenne per lui il pomo della scienza del male». Canta perciò il Tuderte: «Povert’è null’avere / nulla cosa poi volere / e onne cosa possedere / en spirito de libertate» (Lauda 36).

Notevole attenzione Cacciotti riserva pure al tema della polemica religiosa che percorre il Laudario e all’immagine che il poeta ci consegna di san Francesco. Certo, Iacopone va ascritto senza titubanze al novero degli Spirituali, ma questi non furono una realtà monolitica, né teorizzarono una comune vocazione e un’identica interpretazione della Regola francescana. A unirli era piuttosto una concezione rigoristica della vita francescana e l’esaltazione di un ideale di povertà fondato sull’usus pauper; e poiché la scienza teologica trovava sempre più ammiratori e cultori nell’Ordine, riecheggiando un detto famoso di frate Egidio, il poeta giunse ad affermare sconsolato: «Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Asisi» (Lauda 91).

Iacopone manifestava così una visione diametralmente opposta rispetto a Bonaventura, al quale l’università parigina appariva invece come una vera «sorgente» dalla quale «escono rivoli» che irrigano «tutto il mondo». E tuttavia, come Cacciotti sottolinea, nelle laudi dedicate a Francesco, sono chiarissimi e ripetuti gli echi e gli accenti bonaventuriani. In fondo, la rilettura che Iacopone fa della vita dell’Assisiate, scandita da «septe figure demustrate» (Lauda 40), trova la sua fonte nella Legenda maior e pure l’immagine di Francesco «confaluner» (Lauda 71) risale a quella stessa matrice, anche se fu originariamente concepita da Tommaso da Celano.

Certo, con Bonifacio viii egli fu particolarmente severo. Tuttavia, questo è un tratto che Iacopone condivise con gli Spirituali e con altri che — come Dante — ne condivisero le idealità. Senza dubbio, il Tudertino non fu una persona facile né ebbe una vita semplice; per di più era portatore di un’ecclesiologia del tutto differente rispetto a quella del Pontefice, come rivela l’esegesi che fece, in sintonia con la letteratura patristica, delle immagini del sole e della luna (cfr. Lauda 6), quando invece, secondo Bonifacio viii , l’intero potere temporale traeva la propria origine da quello ecclesiastico.

In ogni caso, la polemica non era fine a se stessa, bensì motivata dall’amore struggente del poeta per Cristo, il suo Regno e la sua Sposa, quella Chiesa per la quale Egli ha dato il proprio sangue. Ecco allora che la polemica si allarga a tanti altri aspetti dell’ipocrisia religiosa che non di rado s’annidano anche nei chiostri, come testimoniano la Lauda 37 — nella quale prende di mira una monaca di clausura, inappuntabile nella mortificazione e nell’ascesi, ma desiderosa di esser giudicata santa e lodata da tutti — o la Lauda 75, in cui descrive un religioso scrupolosissimo nei suoi doveri, anche se una sola parola insolente basta per spingerlo all’ira.

Come affermò Giuseppe Ungaretti — opportunamente citato dall’autore — «Iacopone è un gran nome, è il nome maggiore, assieme a quello di Guido Cavalcanti, della poesia predantesca; è insieme ai nomi di Cavalcanti, di Dante, del Petrarca, di Michelangelo, del Tasso, del Leopardi, uno dei sette nomi che fanno della poesia lirica italiana la più potente e gloriosa delle moderne europee». Anche grazie al volume di Alvaro Cacciotti, la sua voce continua ancora oggi a inquietare e a consolare, a sostenere e a spronare quanti s’accostano ad essa.

di Felice Accrocca