Gli 800 anni del “dies natalis” di san Domenico

Predicatore di grazia

Beato Angelico «Crocifissione con Maria, Giovanni e san Domenico»
29 maggio 2021

Ottocento anni fa moriva san Domenico. Per la Chiesa è l’occasione — scrive Papa Francesco nella lettera inviata per la ricorrenza al maestro generale dell’Ordine dei predicatori — di «rendere grazie per la fecondità spirituale di quel carisma e quella missione, che si vede nella ricca varietà della famiglia Domenicana» (Praedicator gratiae, n. 1). Come scriveva lo scorso secolo Georges Bernanos, il volto di Domenico si confonde ormai con quello del suo ordine: «Se potessimo levare alle opere di Dio uno sguardo unico e puro, l’Ordine dei predicatori ci apparirebbe come la carità stessa di san Domenico realizzata nello spazio e nel tempo, come la sua preghiera visibile».

Se è vero che in ogni tempo ci sono stati numerosi carismi nella Chiesa, è tuttavia raro che siano ancora all’opera dopo tanti secoli. Da dove proviene questa fecondità?

A colpire innanzitutto in Domenico è che rispose perfettamente «all’urgente bisogno del suo tempo» (Ibidem, n. 2). Ebbene, come sottolinea Papa Francesco, quel bisogno era duplice. C’era la necessità di una nuova evangelizzazione, alla quale san Domenico rispose con la predicazione povera e itinerante; ma anche, «altrettanto importante, … dei suoi inviti alla santità nella comunione viva della Chiesa» (Ibidem, n. 2). E Domenico comprese subito che senza una santità vissuta, la sua per prima, poi quella delle sue comunità, la predicazione presto o tardi sarebbe stata destinata al fallimento, che senza un ritorno deciso allo stile di vita delle prime comunità cristiane, la parola del Vangelo si sarebbe persa nel frastuono del tempo.

Si tratta di una lettura molto profonda e originale di ciò che significa essere contemporanei del proprio tempo. Il filosofo Giorgio Agamben ha enunciato la seguente tesi: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno volto il fascio di tenebre che provengono dal suo tempo». Ed è proprio quel che avvenne a Domenico durante la carestia di Palencia, dove, mosso a compassione dinanzi a tanto sconforto, «vendette i suoi preziosi libri e aprì un’elemosineria…», poi, nuovamente e in modo determinante, quando scoprì la grande miseria dell’eresia in Languedoc. Ma, prosegue Agamben, questo non basta. La contemporaneità autentica chiede di più: deve essere capace di «percepire nell’oscurità del presente quella luce che cerca di raggiungerci e non ci riesce». Poi aggiunge: «Per questo i contemporanei sono rari».

Per Domenico questa luce non poteva essere che quella del Vangelo che bisognava avere il coraggio di far risplendere verbis et exemplo nella sua purezza originale, al di là di tutto ciò che la ricopriva nei discorsi e nei costumi dell’epoca; ebbene, il coraggio del Vangelo non è altro che la santità. Lungi dall’isolarlo e dall’allontanarlo dal proprio tempo, la santità fu dunque quella matrice di luce che, attinta da Dio, avrebbe sostenuto e portato la sua risposta di predicatore della grazia alle tenebre del tempo.

Ecco perché «ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, n. 19). Se l’emergere di un carisma è sempre datato e circostanziato, quando è indotto dalla santità, questa lo riveste della potenza della vita divina che non ha fine; può allora durare e fruttificare. Sono le «linee temporali perenni della visione e del carisma di san Domenico» (Praedicator gratiae, n. 3), e ciò in senso non solo puramente temporale, ma anche metafisico di una actualitas che rimanda alla capacità di operare e di «inter-venire» con efficacia nello scorrere del tempo ordinario.

E poiché il carisma del santo ha la sua origine in Dio, è donato anche a tutta la Chiesa come suo bene e, come tale, può «servire da ispirazione a tutti i battezzati» (Ibidem, n. 3).

«La grande vocazione di Domenico era quella di predicare il Vangelo dell’amore misericordioso di Dio in tutta la sua verità salvifica e potenza redentrice» (Ibidem, n. 4). Cosa sorprendente, il Beato Angelico scelse quasi sempre di rappresentare Domenico il predicatore in silenzio ai piedi della Croce, sotto i raggi della misericordia di Dio. Lui si scopre lì destinatario dell’Amore crocifisso in cui crede e che sa essere riservato a tutti. Una sola e stessa esperienza gli fa sperimentare la propria salvezza e la fratellanza universale della miseria del peccato e dell’illimitatezza della Misericordia. Che si possa perdere questo incontro salvifico diviene la sua angoscia. Allora supplica e grida, come per squarciare l’abisso e aprire un varco alla Misericordia. Più la riceve, più percepisce l’invito universale, più si lascia configurare ad essa, più sgorga la «sua preghiera frequente e singolare… che Dio gli doni una carità vera ed efficace per coltivare e ottenere la salvezza delle anime» (Libellus, n. 13).

Il Beato Angelico l’aveva capito: ai piedi della Croce, la chiamata alla santità e la chiamata alla missione sono una cosa sola per Domenico.

Si chiariscono così due tratti importanti del carisma domenicano. Anzitutto che la predicazione della grazia non riguarda solo il discorso e il contenuto dottrinale, ma che aspira anche a diffondersi come l’evento della parola che donerà al destinatario l’ardore di un incontro intimo con il Salvatore, la folgorazione in cui la parola diventerà efficace, performativa, capace di «riscaldare i cuori» (Praedicator gratiae, n. 3), di «risvegliare in loro una sete per la venuta del regno…» (Ibidem, n. 5). Poi che l’insistenza del santo a pensarsi come fratello Domenico proviene dall’urgenza di comunione che egli ha attinto dalla misericordia divina: là, ogni fratello umano, amico come nemico, è stato elevato al rango di vero Tu per Dio attraverso la morte del suo amato Figlio sulla croce.

Fare memoria di san Domenico, che si volle fratello, nel momento in cui Papa Francesco ha offerto al mondo l’enciclica Fratelli tutti, non è una strizzata d’occhio della Provvidenza? In ogni caso, qui vengono proposti all’Ordine tre tipi d’impegno, come altrettanti cerchi concentrici.

C’è anzitutto la chiamata a «cooperare in ogni sforzo di “partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli…”» (Ibidem, n. 5). È un invito a procedere risolutamente lungo il cammino aperto dalla Gaudium et spes: i cristiani hanno il diritto e il dovere di apportare la loro pietra nella costruzione di un mondo più fraterno senza timore di accogliere le sfide che possono iniziare scuotendoli. Certo, la maggior parte dei nostri contemporanei non condivide e spesso addirittura rifiuta il volto di Dio che è alla base della fratellanza cristiana. Ma questo rifiuto non significa delegittimare l’impegno a lavorare al loro fianco. Ne va dell’appartenenza a Cristo e della volontà di Dio che neanche uno si perda. Per l’Ordine ne va della compassione di Domenico verso ogni forma di sconforto.

La seconda domanda suona come il rinnovamento del mandato della predicazione da parte della Chiesa: «Possa l’Ordine dei predicatori, oggi come allora, essere in prima linea di una rinnovata proclamazione del Vangelo, capace di parlare al cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo e di risvegliare in loro una sete per la venuta del regno di Cristo di santità, giustizia e pace!» (Ibidem, n. 5). Vale a dire che la Chiesa ha ancora bisogno di predicatori della grazia per «risvegliare le forze spirituali» (Fratelli tutti, n. 276) che feconderanno impegni sia nel cuore sia ai margini della Chiesa.

Ma il contributo più prezioso dell’Ordine alla fratellanza universale viene semplicemente dalla «vita comune» che Domenico ha desiderato, istituito e vissuto. Non che la vita comune realizzi appieno la fratellanza, ma la mette in cantiere con quegli strumenti efficaci che sono la comunanza dei beni, il vivere insieme, il servizio, l’ospitalità…. Ne è un laboratorio promettente. Il genio proprio di san Domenico fu d’infondere il suo ideale anche nel governo, scegliendo «una forma inclusiva di governo, in cui tutti partecipavano al processo di discernimento e di presa di decisioni» (Praedicator gratiae, n. 6). È dunque possibile distaccarsi dalla logica della violenza e della concorrenza, è dunque possibile e bello vivere insieme, e, nutriti dell’Eucaristia e della Parola di Dio, aprirsi a una realtà più misteriosa, quella dell’unità in Dio attraverso l’edificazione del Corpo di Cristo. Ecco perché la vita comune, più che ogni altra cosa, ha valore di «testimonianza profetica del disegno ultimo di Dio in Cristo per la riconciliazione nell’unità dell’intera famiglia umana» e a tale titolo costituisce «un elemento fondamentale» del carisma (Ibidem, n. 6).

Quando, alla fine, Papa Francesco ricorda i frutti di santità e talvolta di genio che ha recato il grande albero plurisecolare della famiglia domenicana (cfr. Ibidem, n. 7), sottolinea lo «straordinario contributo che hanno dato alla predicazione del Vangelo attraverso l’esplorazione teologica dei misteri della fede» (Ibidem. n. 8). In effetti è storicamente vero che il domenicano, nell’opinione pubblica, è un intellettuale!

Ma l’iniziativa risale al santo stesso: «Mandando i primi frati nelle nascenti università in Europa, Domenico riconobbe l’importanza vitale di dare ai futuri predicatori una sana e solida formazione teologica…» (Ibidem, n. 8). In questo si distinse nettamente da san Francesco che fu sempre diffidente verso una «scienza che gonfia» (cfr. 1 Cor 8, 1). «Lo studio» era per san Domenico un elemento così fondamentale dell’identità domenicana da imporlo subito anche alle monache che riunì a Roma (cfr. Costituzioni primitive di San Sisto). Ma lo coniuga sempre con la povertà e la vita comune. Povero perché non cerca di fare carriera ma si mette «al servizio della rivelazione di Dio in Cristo» (Ibidem, n. 8). Povero soprattutto nel suo sforzo di spogliare lo spirito da quegli idoli che sono le false concezioni di Dio o dell’uomo, nella sua mendicità di un raggio di luce evangelica sulle realtà che scruta, e alla fine in una nudità radicale di fronte al mistero di Dio sempre più grande. Quanto alla fratellanza, questa ne costituisce al tempo stesso il terreno fertile e uno dei suoi obiettivi: confidando nell’intelligenza umana, la equipaggia saldamente per la discussione, il dialogo e il dibattito.

In un mondo di violenza, questo ricorso alla ragione e al dialogo segnerà sempre il primo passo verso il rispetto dell’altro. Pertanto studiare è anche «amare con tutta la propria facoltà di comprendere», come ha detto una monaca.

Al crocevia tra fede e ragione, tra contemplazione e slancio missionario, lo studio evidenzia chiaramente un ritmo, una “cadenza” tipicamente domenicana, che consiste nel mettere in tensione poli che, senza essere contraddittori, sono tuttavia opposti, e che esigono al tempo stesso una sorta di andirivieni dall’uno all’altro — è Domenico che dedica i suoi giorni al prossimo e le sue notti a Dio — e una compenetrazione reciproca, poiché nel disegno di Dio sono congiunti — è Domenico che impara molto presto «ad apprezzare l’inscindibilità di fede e carità, verità e amore, integrità e compassione» (Praedicator gratiae, n. 4).

Questa tensione senza risoluzione potrebbe derivare dall’ingiunzione del Signore agli apostoli: «non appartenere al mondo» pur essendo «inviati nel mondo». Delinea per l’apostolo una condizione paradossale in cui lui non può coincidere totalmente con nessuna delle azioni che si svolgono nel mondo, senza tuttavia astrarsi da esse, ma sforzandosi di tenere unite realtà che nell’ordine del mondo sembrano escludersi a vicenda. Questa vita in tensione, che fu quella di Domenico, sarebbe allora come la proiezione dell’infinito della vita divina, dove gli opposti coincidono, nell’esistenza finita.

Osiamo andare oltre e formulare l’ipotesi che il mantenimento di tale tensione è segno di fecondità mentre il suo rilassamento attraverso la dispersione di uno dei suoi poli è segno di deviazione dal carisma. Per riprendere l’esempio della teologia, è quando la preoccupazione della verità è unita a quella di un carisma concreto ed efficace che l’Ordine scrive le pagine più belle della sua storia: «L’unità della verità e della carità trovò forse la sua più alta espressione nella scuola domenicana di Salamanca, e in particolare nell’opera di fra’ Francisco de Vitoria, che propose un quadro di diritto internazionale radicato in diritti umani universali. Questo a sua volta ha fornito la base filosofica e teologica per l’impegno eroico dei frati Antonio Montesinos e Bartolomeo de Las Casas nelle Americhe, e Domingo de Salazar in Asia, per difendere la dignità e i diritti dei popoli nativi» (Ibidem, n. 4).

Al contrario, quando la verità viene screditata a favore della mera osservanza religiosa o del solo impegno nel mondo, quando la difesa della verità arriva a dimenticare il primato della carità, è allora che viene scritta una pagina più buia, come durante gli eccessi dell’Inquisizione….

Quanto allo spazio ampiamente aperto tra i poli in tensione, questo dà luogo e spazio a espressioni e iniziative molteplici e insieme diverse…. «La religione di mio figlio Domenico è un giardino delizioso, immenso, gioioso e profumato» dice un giorno Nostro Signore a santa Caterina, che lo riferisce.

di Marie Trainar, op
Monastero di Langeac (Francia)