Il viaggio fotografico di Nicola Gronchi negli ex ospedali psichiatrici italiani

Tra calcinacci e rottami tracce di vite spezzate
e mai vissute

Volterra
28 maggio 2021

Nel fotogiornalismo italiano riguardo alle immagini sui manicomi c’è un anno che fa da spartiacque tra un prima e un dopo: il 1969. Franco Basaglia aveva già iniziato la sua rivoluzionaria battaglia per la liberazione dei malati dagli ospedali psichiatrici, ma la sua era una lotta quasi solitaria, nota solo a pochi addetti ai lavori e non poco avversata. La politica e la coscienza nazionale avevano relegato il problema all’interno di quelle strutture. I “matti” esistevano, ma nessuno li vedeva, nessuno sapeva — o voleva realmente sapere — come vivevano e venivano curati. Improvviso, come un pugno nello stomaco, quell’anno arrivò Morire di classe, lo sconvolgente reportage fotografico realizzato da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati che mostrò per la prima volta la terribile condizione di degrado umano in cui vivevano le persone internate nei manicomi; uomini e donne, giovani e anziani che sembravano fantasmi, morti viventi. Immagini che scossero le coscienze, indignarono gli italiani aprendo loro gli occhi su quella tremenda realtà, dando un contributo fondamentale al movimento d’opinione che avrebbe portato nel 1978 all’approvazione della legge 180.

Il dopo della fotografia sull’assistenza psichiatrica in Italia è in buona parte la documentazione delle varie fasi di quel passaggio complesso, tormentato, lungo e non indolore seguito alla chiusura dei manicomi per realizzare una nuova rete assistenziale. Ancora oggi, a oltre 40 anni da allora, nel Paese esistono tracce di quel passato, di quel prima che si voleva non si sapesse e che si voleva dimenticato. Perché molte di quelle strutture manicomiali esistono tuttora, abbandonate al degrado del tempo e all’incuria dell’uomo. Di recente il fotografo Nicola Gronchi è andato a cercarle e il suo viaggio per immagini attraverso gli ex ospedali psichiatrici è diventato un libro dal titolo provocatorio La bellezza nella mente (2021, Pisa, Felici Editore, pagine 136, euro 22). Scritto con la psichiatra Liliana Dell’Osso, e con i contributi di Primo Lorenzi e Ignazio Marino, il volume si ricollega a quel filone documentaristico, testimoniando la storia che ha attraversato quei luoghi spesso non idonei e mal riadattati. Edifici che mostrano non solo calcinacci e rottami, ma anche tracce delle esistenze spezzate che da lì sono passate, devastate da sofferenze spesso inutili, da reclusioni non di rado inspiegabilmente prolungate; visioni di vite mai pienamente vissute.

Celle con muri scrostati e cadenti, corridoi e sale con disegni e graffiti lasciati dai pazienti, letti e tavoli arrugginiti, finestre e sbarre divelte, attrezzature mediche accatastate, resti di fibbie di contenzione, scatole di farmaci, schede sanitarie con fogli sparsi, indumenti, scarpe, borse, persino una carrozzina da neonato: tutto abbandonato. «Era tutto lì — spiega il Gronchi — come se ad un certo punto ci fosse stato un allarme bomba e tutti fossero scappati, bastava chiudere gli occhi per immaginare la realtà vissuta in quei luoghi». Una realtà che sembra di intravedere nelle sue immagini, opportunamente in bianco e nero, frutto di un progetto nato per caso dopo aver visto nel 2011 un servizio televisivo in cui l’allora senatore Ignazio Marino, presidente della commissione d’inchiesta del senato sulla sanità pubblica, presentava un reportage scioccante sulle condizioni degli ultimi ospedali psichiatrici giudiziari italiani.

Oggi il fotografo definisce il suo «un pellegrinaggio in solitaria in luoghi di dolore e di sofferenza», un viaggio nella memoria dimenticata, da Volterra a Cogoleto, da Colorno a Maggiano, a Pistoia. Strutture, come sottolinea Dell’Osso, che oggi «ci restituiscono tutto in una malinconica polisemanticità: luoghi di abbandono e di degrado, che hanno visto passare (e portano i segni) di una furia rivoluzionaria, ma che prima erano stati luoghi di cura, abitati da sofferenza e speranza. E prima ancora luoghi deputati a scopi non sanitari: conventi, ville patrizie, una reggia».

Lo stato di degrado attuale amplifica il dolore racchiuso per anni in quelle mura, ma non è più in grado di raccontare il tipo di assistenza che lì veniva praticato. L’incuria, puntualizza la psichiatra, ha cancellato molto di queste strutture, sia quelle con aspirazioni psicologiche, con ampi locali e giardini in luoghi prestigiosi, sia quelle strutturalmente dedicate alla custodia, dove ad emergere sono l’angustia degli spazi, le inferriate alle finestre e gli spioncini alle porte. L’unico luogo che sembra aver resistito in parte al degrado è il manicomio di Maggiano, a Lucca, grazie alla Fondazione Mario Tobino, che da anni si impegna per tutelare quello che un tempo fu il monastero dei Canonici lateranensi di Santa Maria di Fregionaia.

Le foto di Gronchi sembrano il racconto di quella che la coautrice nell’introduzione del volume definisce una sorta di damnatio memoriae, nel senso di un processo di abbandono portato avanti deliberatamente dopo le roventi polemiche seguite alla legge 180, quasi a voler celermente distruggere quel passato nel timore che potesse esserci un qualche ripensamento. Insomma, «viene il dubbio che si volesse cancellare anche la parte positiva o ancora utilizzabile» di quelle strutture. Il difficile allora fu trovare una via di mezzo, come raccontano Dell’Osso e Lorenzi ricostruendo le vicende che precedettero e seguirono l’approvazione della riforma dell’assistenza psichiatrica, tra un passato di medicalizzazione ben radicato nell’istituzione, in cui «le buone intenzioni non furono sempre seguite da adeguate condotte», e un nuovo basato sulla negazione del concetto stesso di malattia mentale. Un cambiamento che prevedeva una capillare rete territoriale di presa in carico dei “liberati” che di fatto ha stentato a decollare, con pesanti conseguenze sui malati stessi e sulle loro famiglie, che se ne dovettero spesso fare carico da sole.

In sostanza quello fissato da Gronchi con le sue fotografie è un passato controverso con il quale occorre fare certo i conti, ma con quella libertà di sguardo e di giudizio che sola può aiutare a far riemergere quella “bellezza nella mente” evocata nel titolo del libro. E a far sì che il reportage, come scrive il fotografo, assuma «il significato di una riflessione sulla sanità mentale tramite delle immagini che tutti noi non dobbiamo scordarci, ma che allo stesso tempo non vogliamo più vedere». Ovvero la speranza, ed è la conclusione di Marino dopo aver ripercorso la sua drammatica esperienza da cui è scaturito il progetto, «che nulla del genere possa più accadere per reclusi non capaci di intendere e di volere».

di Gaetano Vallini