Una riflessione sulla manutenzione dopo la tragedia della funivia del Mottarone

Invisibile ma necessaria

Il luogo della tragedia
28 maggio 2021

Il disastro della Funivia del Mottarone non lascia dubbi sulle gravi colpe degli esercenti, ben consapevoli dei rischi dovuti alle loro azioni; esprime inoltre, con evidenza, la necessità di una manutenzione ancora più indispensabile e urgente dopo la lunga e forzata interruzione dovuta alla pandemia. Come conciliare il rilancio del lavoro e il riequilibrio di un ambiente che, dopo anni di incuria, si presenta compromesso in aree sempre più estese?

I disastri, gravi e imprevisti, che continuano a ferire il territorio, testimoniano una condizione di malessere latente, che rischia di degenerare in danni irreversibili sia sul patrimonio naturale che sulle città e le infrastrutture extraurbane. Le forzature, legate all’alterazione dei fiumi, all’edificazione incontrollata delle coste e al depauperamento boschivo delle montagne, hanno compromesso non poche parti del mondo, spingendole ben oltre i limiti della sostenibilità.

A queste considerazioni di carattere generale sull’ambiente si aggiungono valutazioni specifiche sulle tecniche costruttive e sugli impianti strutturali, che dimostrano di essere giunti in molti casi a consunzione se non proprio al collasso. Lo testimoniano il crollo del Ponte Morandi e i numerosi viadotti pericolanti, dove il calcestruzzo armato conferma i suoi limiti temporali e impone urgenti e profondi interventi di manutenzione. A tali fenomeni, dipendenti dalla naturale obsolescenza dei materiali, ma anche da incontrollata superficialità e da interessi speculativi, si somma l’esigenza di un costante adeguamento della dotazione edilizia — residenza e servizi — resa necessaria dall’incremento di popolazione nelle aree urbane, fenomeno, questo, legato più all’abbandono delle campagne che alla crescita demografica. Il problema in Europa è consistente, ma non in termini esplosivi come in altri Paesi — Cina, Sud America e Africa — dove la crescita delle città è del tutto fuori controllo.

Per affrontare il tema dell’occupazione lavorativa e della protezione dell’ambiente la politica architettonica e urbanistica oggi indica due linee, proiettate su tendenze contrapposte: contenere la crescita, puntando a recuperare, dove è possibile, una situazione di passato equilibrio, e a canalizzare l’intervento artificiale dell’uomo verso la primaria ricerca dell’armonia con le risorse naturali, proprio per non consumarle, anzi per valorizzarle; intervenire con opere importanti, di grande impatto, mirate a soddisfare le esigenze, crescenti soprattutto nei centri urbani, quantificate con larghezza proprio per anticipare quello che, prevedibilmente, sarà uno sviluppo sempre più denso. È chiaro che le due visioni dovrebbero combinarsi su programmi che procedano in parallelo, rafforzandosi reciprocamente; esse però sottendono due filosofie progettuali attualmente in contrasto e apparentemente inconciliabili: semplificando, chi punta alla costruzione del nuovo, efficiente e capace di sopperire a tutte le carenze, ritiene riduttivo uno sviluppo basato sul contenimento dei consumi, che si appoggia a un modello di vita il più possibile parsimonioso. D’altronde questa contesa non è nuova: nasce circa cinquanta anni fa, a seguito della grande crisi energetica che ci ha obbligato a rivedere lo stile di vita e a fare i conti, ogni giorno, con l’indebolimento delle risorse primarie. Nuova è la consapevolezza che alla riduzione delle materie naturali per la produzione di energia si deve rispondere, ancora prima di cercare nuove fonti, con il contenimento dei consumi e con la mitigazione dell’impatto ambientale per evitare ogni possibile alterazione.

La scelta delle linee guida non può prescindere dalla valutazione degli obiettivi economici e degli investimenti; deve tuttavia anche corrispondere a un piano etico lungimirante, attento a proteggere il preesistente, inteso nella sua costituzione e configurazione più ampia. Componente primaria del progresso è l’eliminazione di ogni spreco e sovrapposizione funzionale, sapendo che il patrimonio abbandonato e dismesso costituisce un aggravio, quasi impossibile da riassorbire. La necessità di contenere gli sprechi impone la combinazione di programmi alle diverse scale, dove i traguardi, solo apparentemente contenuti, del rammendo del territorio non devono essere sopraffatti dall’ideologia della grande scala. Gli interventi alla dimensione domestica della manutenzione e del riuso dell’esistente sono infatti in grado di assicurare, come le grandi opere, occupazione, lavoro e crescita tecnologica.

È del tutto prioritario salvaguardare il patrimonio esistente, rivitalizzando l’ambiente, sia come territorio che come sistema edilizio e urbano. Gli edifici dismessi, che non poche volte occupano aree estese, costituiscono un pesante aggravio sociale, in quanto molto rapidamente possono deteriorarsi, provocando sacche di degrado che, se trascurate, renderanno difficile e molto oneroso, anche in termini umani, ogni futuro progetto di risanamento.

Gli esempi di patrimoni inutilizzati e lasciati per anni senza cure sono molti, soprattutto in Italia, e hanno dato vita a condizioni di generale fatiscenza che, progressivamente, tendono a estendersi, coinvolgendo l’intero habitat. In Italia, ma il fenomeno può essere proiettato in molte altre zone del mondo, la crescita delle città ha provocato l’inglobamento di comparti produttivi non più compatibili con la residenza. Edifici per l’industria pesante, impianti per l’estrazione dei minerali, ma anche strutture per la lavorazione alimentare sono state abbandonate. Il loro riuso, quando è avvenuto in tempi brevi, ha promosso la realizzazione di insediamenti, spesso museali e culturali in genere, che hanno valorizzato rapidamente ampi spazi urbani; quando invece immobili e territorio sono stati trascurati a lungo, il loro recupero è diventato sempre più complicato, ostacolato da forti resistenze tecniche e sociali.

Numerosi sono anche gli esempi di “disinteresse” ambientale che hanno provocato nel tempo l’impoverimento di aree che, al contrario, avrebbero potuto avere, se programmate con sufficiente respiro, un solido sviluppo turistico. Bagnoli a Napoli, gli ex Mercati generali e l’Italgas a Roma, dopo decenni di abbandono rappresentano una condizione di costante pericolo per possibili crolli e presenza di materiali tossici esposti all’aria.

Si pongono tuttavia anche casi notevolmente più semplici e circoscritti, quali la dismissione di strutture ricettive, in molti casi ospedali, soprattutto psichiatrici ormai chiusi, lasciate inutilizzate, esposte a devastanti fenomeni di vandalizzazione, oppure l’adeguamento di immobili destinati a funzioni pubbliche — musei, teatri, edifici per il culto — che custodiscono al loro interno opere di grande valore. In questi casi la manutenzione non impegna progetti di riequilibrio territoriale; può essere contenuta nei limiti dell’edificio, rappresentando tuttavia un risolutivo “rammendo” del tessuto urbano.

Nella “riammagliatura” del territorio si deve comprendere anche il vasto sistema dei borghi antichi, molti e preziosi soprattutto in Italia, che possono offrire condizioni abbastanza tranquille, in particolare adatte alla popolazione anziana che, per combattere l’abbandono e la solitudine, ha bisogno di trovare opportunità di vita comunitaria favorevole.

Ciò non deve impedire di programmare interventi nuovi a grande scala, che risolvano esigenze soprattutto di trasporto e di approvvigionamento energetico. È indispensabile però che la programmazione tenga conto dei costi e dei benefici, non solo economici, e che sappia assicurare l’interesse e le capacità delle singole amministrazioni alla tutela del bene. Solo una manutenzione costante può assicurare l’efficienza delle strutture e, quindi, la conservazione della ricchezza. Dedicare impegno e priorità alla manutenzione richiede un’attenzione particolare affinché il processo d’uso non sia interrotto e i lavori di adeguamento inizino prima che il percorso di degrado sia troppo avanzato. In tal modo i costi saranno sicuramente più contenuti e, soprattutto, non si sarà ancora avviato quel pericoloso processo di abbandono che, anche psicologicamente, tende ad allontanare i cittadini dalla custodia del bene, lasciandolo depauperare con sempre più accelerata velocità.

di Mario Panizza