Hic sunt leones

Africa armata
Africa affamata

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28 maggio 2021

Un settore che non conosce recessione di sorta nel mondo è quello delle armi. Partendo dall’assunto che parlare di «difesa», soprattutto nel Sud del mondo, è un eufemismo, bisogna prendere atto a malincuore che il «comparto bellico» — perché di questo si tratta — è in continua ascesa. A tale proposito, per comprendere la gravità della situazione è fondamentale leggere il recente Rapporto annuale dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri, www.sipri.org).

Nel 2020 la spesa militare totale nel mondo è salita a 1.981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6 per cento rispetto al 2019, malgrado una diminuzione del Pil globale del 4,4 per cento. La pandemia del coronavirus (covid-19) non è dunque riuscita ad intaccare la produttività di questo settore, ma addirittura, stando alla stessa fonte svedese, ha rafforzato o aggravato conflitti, violazioni dei diritti umani, sforzi di disinformazione, disuguaglianza di genere e fratture sociali. Il mondo emergente post-pandemia, dunque, nelle previsioni del Sipri «rischia di essere più violento e meno democratico». La cronaca parla chiaro: le tensioni geopolitiche e l’azione unilaterale sono aumentate, mentre la necessità di un’azione collettiva da parte del consesso delle nazioni, è diventata più che mai urgente. Sempre secondo il Sipri, le soluzioni multilaterali, come peraltro auspicato in più circostanze da parte della Santa Sede, sono fondamentali per affermare il sacrosanto diritto alla pace.

Per quanto concerne il continente africano, nonostante la crisi sanitaria ed economica scatenata dal coronavirus, nel 2020 le spese militari sono tornate a crescere, soprattutto nei Paesi più penalizzati dalle ribellioni jihadiste, come il Mali (+22 per cento), la Mauritania (+23 per cento), la Nigeria (+29 per cento), il Ciad (+31 per cento) e, caso a parte, l’Uganda (+41 per cento). Queste percentuali del 2020 sono allarmanti perché in effetti, prendendo in esame l’ultimo quinquennio nel suo complesso, sono in controtendenza per quanto concerne il volume delle consegne di sistemi d’arma.

Infatti, rileva il Sipri, le importazioni da parte degli Stati africani dal 2016 al 2020 sono calate del 13 per cento. In questo quinquennio, i tre maggiori importatori africani di armi sono stati l’Algeria (4,3 per cento delle importazioni globali), il Marocco (0,9 per cento) e l’Angola (0,5 per cento). Sommando le importazioni dell’Algeria e del Marocco, si evince che queste hanno rappresentato il 70 per cento delle importazioni totali africane di armi. Rispetto al quinquennio precedente, l’Algeria ha registrato una crescita del 64 per cento posizionandosi così al sesto posto fra le principali nazioni importatrici di armi. Invece, le importazioni di armi da parte del Marocco sono diminuite del 60 per cento.

Nell’Africa subsahariana il Sipri registra che questa macro regione ha rappresentato il 26 per cento del totale delle importazioni di armi africane, rispetto al 41 per cento del quinquennio precedente. L’incremento dell’importazione di armi, tra il 2016 e il 2020, riguarda la fascia Saheliana e nello specifico il Burkina Faso (83 per cento) e il Mali (669 per cento), in quanto gli eserciti regolari di questi Paesi fanno parte della Forza congiunta del gruppo dei cinque per il Sahel (G5 Sahel) con l’intento dichiarato di contrastare le formazioni jihadiste che imperversano nella regione.

È importante notare, comunque, che i dati sulle spese militari del Sipri sono relative al commercio mondiale di alcune categorie di armi, riferendosi soprattutto ai maggiori sistemi d’arma (mezzi corazzati, navi, aerei, artiglieria pesante). Per quanto riguarda specificamente il continente africano, il traffico di armi davvero più preoccupante è quello costituito dalle armi leggere e piccole, ovvero le armi che possono essere trasportate ed impiegate da una persona o due persone senza l’ausilio di altri operatori (la definizione è di Salw acronimo di Small Arms and Light Weapons). Le stime di Small Arms Survey indicano che in Africa i civili detengono più di 40 milioni di armi leggere sul continente, mentre le forze armate e le forze dell’ordine poco meno di 11 milioni. Come se non bastasse, nel quadro degli obblighi derivanti dagli strumenti internazionali quali il Programma d’azione delle Nazioni Unite per prevenire, combattere e sradicare il commercio illecito di armi leggere e di piccolo calibro, è noto che in almeno 11 Stati africani vengano legalmente prodotte armi leggere, mentre in 18 vengono prodotte munizioni.

«La letalità delle armi leggere è estremamente alta — afferma Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo — se si considera il numero di vittime che ogni anno esse provocano, sia in conflitti interni e internazionali, sia come strumento principale in mano a terroristi e organizzazioni criminali per la commissione di delitti e come mezzo di intimidazione. Dei circa 1.900 miliardi di dollari spesi ogni anno nel mondo per gli armamenti in genere, le armi leggere rappresentano una quota esigua, ma il prezzo umano della loro diffusione incontrollata è incalcolabile, tanto da essere definite da alcuni autori “le vere armi di distruzione di massa” e, se si considera il numero di vittime da imputare ogni anno al loro impiego, più o meno legale, tale definizione non sembra affatto fuori luogo». Da rilevare che le armi e munizioni che circolano sul circuito dei cosiddetti traffici illeciti in Africa sono in grandissima parte leggere. Si tratta di un mercato che coinvolge molte delle formazioni armate ribelli che operano nelle aree di crisi; per citarne alcune: dal Sahel, al settore orientale della Repubblica Democratica del Congo; dalla Repubblica Centrafricana, alla Somalia; dalla regione mozambicana di Cabo Delgado, al nord della Nigeria.

Il tema in questione è comunque complesso e si fonda su due principali canali di approvvigionamento, come spiega la professoressa Monica Massari, docente di Sociologia presso l’Università degli Studi di Milano: «Da un lato, c’è il cosiddetto mercato nero, cioè il mercato propriamente illegale dove le leggi in materia di armi sono chiaramente violate: secondo le organizzazioni internazionali e i centri di ricerca che si occupano di monitorare il mercato delle armi, questa quota del mercato è quella meno consistente da un punto di vista del volume e del valore delle transazioni che si verificano al suo interno, ma è quella che vede protagoniste le organizzazioni criminali attive a livello internazionale, fra cui le mafie italiane. Dall’altro vi è il cosiddetto mercato grigio, cioè un mercato pur sempre illecito, ma tecnicamente legale, che vede protagonisti soprattutto attori governativi, statali, come ad esempio i governi oggetto di sanzioni internazionali, ma anche gruppi guerriglieri e movimenti separatisti».

La rilevanza, soprattutto in alcuni contesti africani, dei nessi esistenti tra traffico di armi e traffico illecito di minerali preziosi, ad esempio i diamanti, è stata cruciale per rimpinguare gli arsenali di non pochi gruppi di insorti, alcuni dei quali legati al terrorismo internazionale. Scambi di questo tenore sembrano costituire tuttora una modalità frequente di interazione tra gruppi eversivi, come le notizie di cronaca riportate dalle riviste missionarie e del terzo settore spesso rimandano.

Da questi accenni sul funzionamento del mercato illecito delle armi e del ruolo di tutti quei soggetti che gravitano in questo ambito, emergono chiaramente le debolezze dei sistemi di controllo e di contrasto a livello internazionale. Pertanto, la voce della società civile riveste un ruolo centrale. Andrebbe, ad esempio, fatta conoscere un’illuminata iniziativa della International Council of Voluntary Agencies (Icva), la rete globale di oltre 250 organizzazioni non governative (ong) con la missione dichiarata di rendere l’azione umanitaria più fondata ed efficace, lavorando collettivamente e in modo indipendente per influenzare la politica. Queste ong chiedono ai governi di dedicare un solo giorno di spese militari per coprire i 5,5 miliardi di dollari necessari per salvare 34 milioni di persone dalla fame nei prossimi mesi in Paesi piegati da guerra, pandemia e cambiamenti climatici. Il calcolo, effettuato da Oxfam, a nome delle altre ong, è stato formalizzato in una lettera aperta, rivolta ai leader mondiali per scongiurare la catastrofe umanitaria in diversi Paesi, alcuni dei quali africani come l’Etiopia, il Sud Sudan, il Burkina Faso e la Nigeria, a un anno esatto dall’allarme delle Nazioni Unite sull’aumento esponenziale della fame.

Ma per poter affermare questo indirizzo è sempre più necessario promuovere una nuova stagione della consapevolezza. A questo proposito sovviene il pensiero illuminato di Papa Francesco il quale lo scorso 10 marzo, nella catechesi dell’udienza trasmessa quel giorno in diretta streaming dalla biblioteca privata del Palazzo apostolico, ripercorrendo le tappe salienti del suo storico viaggio in Iraq, ha detto tra l’altro: «Sempre la guerra è il mostro che, col mutare delle epoche, si trasforma e continua a divorare l’umanità». Proseguendo poi a braccio ha aggiunto: «E io mi domando: chi vende le armi ai terroristi, che stanno facendo stragi in altre parti, in Africa, ad esempio? È una domanda, e vorrei che qualcuno rispondesse».

di Giulio Albanese