Commercio equo e solidale

Un altro stile di vita
e di consumo
per sconfiggere
lo sfruttamento

Coltivatrici di cotone sostenibile in Asia centrale
27 maggio 2021

Numeri record di un cambiamento culturale
che si è rafforzato durante la pandemia


Produrre con i poveri e tra i poveri. È stato un vero e proprio cambiamento culturale e virtuoso quello che ha avuto origine dall’onda del commercio equo e solidale nel mondo: quasi un’utopia e una prassi nata per sconfiggere lo sfruttamento e la povertà legati a cause economiche, politiche o sociali e assicurare ai contadini e produttori dei paesi del sud del mondo un prezzo più giusto per i prodotti e un salario adeguato, limitando la catena di intermediari. Una produzione etica e sostenibile, con un’attenzione all’ambiente e all’utilizzo delle risorse. Cacao, zucchero, banane e caffè sono oggi i prodotti più venduti del commercio equo.

Questo stile di vita e di consumo consapevole ha permeato in profondità anche il mondo cattolico, trovando echi e rafforzandosi con i contenuti della Laudato si’ di Papa Francesco. Giorni fa si è celebrata la Giornata mondiale del commercio equo e solidale, che ricorre ogni anno a maggio, ed è questa un’occasione utile per tentare di tracciare il bilancio di un percorso articolato e complesso. Oggi l’Organizzazione mondiale del commercio equo e solidale (Wfto), la comunità globale delle grandi organizzazioni sociali che adottano queste pratiche e ne stabilisce i criteri, conta circa un migliaio di realtà ed è diffusa in settantasei nazioni (dati 2018). Un fatturato di circa 7 miliardi e mezzo di euro nel 2016, pari all’1 per cento del pil mondiale, in netta crescita: era di 4,36 miliardi di euro nel 2010. Per dare la misura di quanto il fenomeno abbia orientato la mentalità delle persone in Italia, spingendoli verso stili di vita diversi e un consumo critico e responsabile, un’indagine svolta nel 2020 — prima dell’emergenza covid — da Francesca Forno, dell’Università di Trento, e Paolo Graziano, dell’Università di Padova, mostra una tendenza molto chiara: nell’ultimo triennio circa due terzi della popolazione italiana (62,3 per cento) segue pratiche di consumo responsabile, più del doppio rispetto al 2002 e con un incremento del +219 per cento nell’ultimo ventennio. Emerge però anche una sorta di «polarizzazione nelle pratiche di consumo» tra consumatori “responsabili” e “indifferenti”. Molti, pur essendo informati, dichiarano in modo crescente di non essere interessati a pratiche di consumo sostenibile.

I primi negozietti che compravano direttamente dai produttori nacquero negli anni ’60 nel Nord Europa e negli Stati Uniti, ma ancora non si trattava di un movimento organizzato. La svolta arrivò negli anni ’80, quando il concetto di commercio equo cominciò a consolidarsi, con l’obiettivo di sottrarre i contadini allo sfruttamento delle multinazionali, che li pagavano miseramente. È in questo periodo che iniziarono a spuntare in Italia le prime botteghe equo-solidali. Dagli anni ’90 in poi nacquero le prime organizzazioni che certificavano la qualità dei prodotti. In Italia il commercio equo ha visto intensi dibattiti e alterne vicende. Dalle prime botteghe legate al territorio che vendevano solo prodotti equo-solidali si è arrivati, anche in maniera tormentata, fino agli scaffali dei supermercati. La Carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale (tra cui il divieto di lavoro minorile, giusti salari, impiego di materie prime rinnovabili) definisce i valori e i principi condivisi da tutte le organizzazioni. La prima versione è stata approvata nel 1999, un’altra nel 2005. Oggi sono tre i principali filoni: uno orientato alla grande distribuzione, un altro che garantisce che la filiera dei prodotti rispetti le regole del commercio equo e infine le botteghe, considerate come presidio culturale e politico nei territori, come alle origini. In Italia il movimento del commercio equo e solidale è rappresentato da tre organizzazioni: Equo garantito, Fairtrade Italia e Associazione botteghe del mondo. Nove sono le centrali di importazioni dei prodotti. Centocinquanta sono i punti vendita delle Botteghe del mondo, che fanno capo a settanta organizzazioni no profit riunite dal 1991 nell’associazione, impegnata soprattutto in campagne di sensibilizzazione e informazione, contatti con gli enti locali, con le banche, con scuole, università, istituzioni pubbliche e private.

«Le botteghe — spiega Massimo Renno, presidente di Assobotteghe — rappresentano lo zoccolo duro del consumo critico. Come tutti i negozi di vicinato, nonostante la crisi, stanno riaggiornando le loro offerte, cercando di vendere i prodotti anche tramite l’e-commerce, con delivery e servizi». La pandemia di covid-19, con l’impossibilità di uscire o allontanarsi da casa, ha fatto emergere segnali in controtendenza, come «una fidelizzazione e l’aumento delle capacità delle botteghe di vendere anche i prodotti delle economie solidali italiane», a esempio di cooperative che impiegano persone con disabilità, ex detenuti e vittime di tratta, che fatturano 6 milioni di euro all’anno. «Qualcosa di enorme è successo — osserva Renno — ma siamo ancora in una soglia in cui si fatica a comprendere cosa. Si percepisce che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema ma non siamo ancora diventati la società che vorremmo. A me sembra che la pandemia abbia messo a nudo i limiti di questo modello, basato sulla spersonalizzazione dei rapporti, sui centri commerciali, e abbia favorito invece la scelta dei negozi di vicinato, del mercato locale. Questo ci fa capire che è possibile un’alleanza anche con i produttori del nord del mondo, non solo con quelli del sud». Secondo il responsabile, «uno degli aspetti straordinari del commercio equo è il protagonismo delle donne: le lavoratrici sono il 66 per cento e l’84 sono presidenti di organizzazioni o cooperative. Il principio della cura, l’importanza delle relazioni con l’ambiente e con le comunità vincono su una rappresentazione simbolica solo patriarcale».

Il consumo responsabile a marchio Fairtrade è anche sugli scaffali del supermercato, al bar, nelle mense scolastiche, nei ristoranti, nelle macchinette della distribuzione automatica in ufficio. Sono 60 aziende in Italia con circa 320 milioni di euro di fatturato nel 2019: «I prodotti di 1900 gruppi di produttori sono presenti in circa 14.000 negozi certificati Fairtrade», precisa Paolo Pastore, direttore esecutivo di Fairtrade Italia. Oggi il circuito coinvolge 1,6 milioni di agricoltori in settantacinque paesi di Asia, Africa e America latina: coltivatori di caffè, zucchero, banane, ananas, cacao, tè, fiori, oggettistica.

Equo garantito, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, nel 2019 ha registrato una produzione pari a 67,9 milioni di euro. Le vendite hanno raggiunto il valore complessivo di 57,8 milioni in 187 punti vendita e all’ingrosso. Sono impiegati 462 lavoratori e oltre 3500 volontari. Quanto alle importazioni, nel 2018 l’impegno verso i contadini e gli artigiani dei paesi del sud del mondo è stato di 12.527.124 euro di acquisti, distribuiti principalmente tra America latina (39,5 per cento), Asia (36) e Africa (22,5).

di Patrizia Caiffa