Una chiave di lettura
per la vita di ogni giorno

 Una chiave di lettura per la vita di ogni giorno  QUO-117
26 maggio 2021

Il 20 maggio 1521, un giovane cavaliere basco, Iñigo López de Loyola, venne colpito a una gamba da una palla di cannone durante la battaglia dell’assedio di Pamplona, combattuta tra una guarnigione spagnola e le truppe francesi. Ignazio era andato per vincere e per affermare la sua immagine di valoroso soldato, ma quel giorno perse.

Eppure, proprio da quella sconfitta che non gli consentì di ottenere la gloria degli uomini, iniziò la sua storia di conversione, che più tardi lo avrebbe condotto a desiderare di voler agire esclusivamente “Ad Maiorem Dei Gloriam”.

Oggi, a cinquecento anni da quel giorno di grazia che travolse il fondatore della Compagnia di Gesù, si celebra l’inaugurazione dell’Anno ignaziano per il desiderio della Compagnia di voler «Vedere nuove tutte le cose in Cristo». È questo un esplicito invito, rivolto a tutta la famiglia ignaziana affinché possa, ancora una volta, affidarsi totalmente a Dio Padre nel continuare quel processo di trasformazione interiore che caratterizzò la vita di Ignazio.

Certamente questa iniziativa implica il riconoscersi innanzitutto tutti peccatori, ma toccati dalla misericordia di Dio. Una prospettiva per rileggere la propria vita partendo dalla certezza di sapersi amati in maniera incondizionata, nonostante le tante contraddizioni che certamente la attraverseranno. Una proposta, cioè, a essere generativi nell’amore, perché chi si riscopra amato nella verità del suo essere, non possa che desiderare di ridistribuire l’amore ricevuto in forme sempre nuove.

La certezza del sapersi amati in maniera incondizionata, è una chiave di lettura per aiutarci a cercare e trovare Dio in tutte le cose, per rispondere positivamente a una chiamata specifica della proposta educativa dei gesuiti che mira a formare donne e uomini per gli altri. E da ex-alunno della Compagnia di Gesù, ripensando alle tante esperienze ignaziane vissute, in effetti riconosco questo elemento del voler operare sempre in uscita come la costante che ha caratterizzato l’azione apostolica dei tanti gesuiti che ho avuto modo di incontrare.

Con la loro testimonianza di vita, ho appreso che nella misura in cui ci si riconosce amati, si potrà agire in apertura verso il mondo, con gli occhi rivolti verso l’alto, senza sentire la necessità di dover stare piegati guardando in basso per difendere il proprio. Infatti, il proprio, anzi il mio, non esisterà più se non come momento temporaneo e propedeutico alla condivisione.

A questo proposito, un evento particolarmente caro mi torna in mente. Ricordo quando insieme ad alcuni padri gesuiti ci trovammo in Spagna a dover affrontare un’emergenza per gestire all’improvviso l’accoglienza di una persona migrante, ed uno di loro, con la più assoluta naturalezza, svuotò gran parte del proprio armadio, offrendo il “proprio” guardaroba per aiutare il giovane ragazzo straniero. Quella testimonianza, per la mia formazione, valse più di un ciclo completo di lezioni di teologia sulla povertà. In quel momento, ho capito che una forma autentica di povertà può consistere anche nel possedere le cose, ma avendo cura di non farsi mai possedere da esse. Ovvero essere sempre pronti a farne a meno in funzione di un bene più grande.

Fare memoria di questa libertà, mi rimanda a un altro evento con cui un amico gesuita mi ha aiutato a vedere con lo sguardo di Cristo, nell’ambito di un progetto apostolico con persone non credenti e credenti in altre religioni. Attraverso il suo desiderio autentico di volersi mettere in ascolto per udire le domande e la visione di queste persone, mi ha ricordato che Dio è uno solo ed è il Dio di tutti, che ama tutti, al di là del fatto che una persona lo chiami con un altro nome o non lo chiami affatto.

In questo senso, nasce la mia gratitudine alla Compagnia. Per avermi fornito strumenti concreti e utili ad esplorare la mia relazione con Dio, essendo questo un dono grandissimo, perché mi ha aiutato a rendere credibile nella mia vita il Suo Mistero. Un mistero che ha assunto forma innanzitutto nella presenza tangibile del fratello accanto, che mi ha indotto a comprendere che la soluzione era diametralmente opposta all’idea che avevo avuto per molto tempo.

Spesso mi ero orientato attraverso l’idea di un Dio che preferiva rivelarsi dall’alto, ma questa idea non riusciva a trovare uno spazio adeguato nella mia esistenza perché rimaneva distante rispetto alle tante domande della vita, lasciando il sapore amaro di una fede che scadeva in ritualismo. Invece, ricevere un metodo di approccio che accompagnasse a domandarsi su Dio partendo dall’uomo e dall’esperienza di sofferenza condivisa, ad esempio con i migranti del Centro Astalli, mi ha aiutato a instaurare una relazione con il Signore che si è rivelata credibile rispetto al mistero trinitario, perché mi ha offerto di poter conoscere e riconoscere un Dio “parlante” attraverso gli eventi di ogni giorno.

In questi giorni, dunque, si celebra l’inizio di un evento che invita tutta la famiglia ignaziana, e più in generale tutta la Chiesa, a raccogliersi ancora una volta per fare discernimento e rinnovare la volontà ad essere disposta, sempre, ad agire con coraggio al seguito e ad imitazione di Gesù, soprattutto verso le domande più scomode che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Gesù, come ricorda il preposito generale della Compagnia, padre Arturo Sosa, all’interno del suo libro In cammino con Ignazio, ci ha testimoniato un Dio assolutamente e felicemente compromesso con l’uomo: «… Mise la persona umana al di sopra della legge, ruppe con un ritualismo vuoto ed escludente, e per questo lo condannarono. Gesù mise al centro il Dio vivente, il Dio della vita e della comunione d’amore tra le persone, con l’ambiente e con se stesso. Spezzò quell’immagine di Dio confusa con le strutture di potere o di oppressione…».

di Marco Russo