All’ospedale romano San Camillo un progetto per i pazienti con grave disabilità intellettiva

Curati e assistiti con Tobia

L’équipe Tobia del San Camillo di Roma  al lavoro con i pazienti (Foto di Massimo Podio)
26 maggio 2021

Vi siete mai chiesti come fa un medico, un infermiere o un tecnico di laboratorio ad eseguire esami diagnostici impegnativi a persone con disabilità intellettiva grave, “non collaboranti” o “difficili”? In Italia sono migliaia i pazienti che necessitano di una risonanza magnetica, un’endoscopia gastrica, una rettoscopia, un elettrocardiogramma, o anche un semplice prelievo di sangue o l’ablazione del tartaro, e che invece non eseguono alcun esame perché non ci sono le strutture e il personale sanitario adeguati ad accoglierli. A Roma, all’interno dell’ospedale San Camillo, opera dal novembre del 2019 un team di professionisti che ha aderito con spirito di abnegazione al progetto Tobia (Team Operativo Bisogni Individuali Assistenziali) prendendo in carico questi pazienti, per l’organizzazione di appropriati percorsi diagnostici e di prevenzione.

«Don Milani ripeteva spesso che “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”. Ci sono tantissime persone che hanno bisogno di essere curate e assistite con un’attenzione diversa. C’è la necessità di un approccio misericordioso a persone spesso “scartate” anche per le cure essenziali, che dal punto di vista laico dia il diritto soggettivo (esigibile) alla cura anche alle persone più difficili»: ne è fermamente convinto Stefano Capparucci, fisioterapista, motore pulsante del progetto Tobia, e tra i responsabili dell’iniziativa solidale Dream della Comunità di Sant’Egidio che nasce per il diritto alla salute, la lotta all’aids e alla malnutrizione nel continente africano.

«Tobia — racconta Capparucci al nostro giornale — era un mio amico disabile che quando percepiva un fastidio fisico si dava pugni sul volto e per tre volte ho chiesto un favore ai colleghi oculisti per intervenire subito sulla retina, senza farlo aspettare altrimenti sarebbe peggiorato l’autolesionismo. Un favore... ma in fin dei conti la sua diversità lo rendeva un diritto. Da qui, mi sono reso conto che era giunto il momento di fare qualcosa di concreto per queste persone. Ho quindi proposto il progetto alla direzione generale dell’ospedale che ha accolto con entusiasmo e siamo partiti subito con un successo quasi immediato e inaspettato». Ad oggi, infatti, più di 300 pazienti hanno potuto usufruire di oltre 1500 prestazioni. Il servizio, nonostante l’emergenza pandemica da covid-19, è andato avanti senza interruzioni, effettuando anche tamponi. «Abbiamo vaccinato 200 persone con grave disabilità e altrettanti care giver personali — spiega il direttore sanitario dell’ospedale San Camillo, Daniela Orazi — non è stata una cosa facile. Provi a pensare cosa vuol dire un ago sulla spalla di un ragazzo con un grave disturbo autistico», ma secondo il direttore sanitario «quando ci metti testa e cuore... tutto è possibile!. Il coinvolgimento del personale è pressoché unanime: medici, infermieri e tecnici, si mettono a disposizione, anche fuori dall’orario di lavoro, per aiutare chi ha bisogno di cure e soprattutto di attenzione». L’impegno in questo nosocomio della capitale va in effetti oltre l’immaginabile. Basti pensare che qualche giorno fa per effettuare un elettrocardiogramma a un piccolo paziente, infermieri e medici, indossando la maglia della Roma, hanno fatto ascoltare l’inno della squadra cantata da Antonello Venditti!. «Per portare a termine un esame diagnostico — aggiunge il volontario della Comunità di Sant’Egidio — adottiamo tutte le strategie possibili, grazie anche all’aiuto dei familiari dei pazienti. Una persona con autismo o con grave disabilità intellettiva che sta male soffre due volte. La prima perché ha un dolore, la seconda perché non è in grado di esprimerlo. Per questa ragione — prosegue — ci vogliono “interpreti” che dal punto di vista clinico sappiano parlare la loro stessa lingue. Serve pazienza, buon approccio e un accomodamento ragionevole». Anche perché molto spesso per poter sottoporre questi pazienti a una qualsiasi procedura diagnostica, o a una visita otorinolaringoiatrica è necessario effettuare una sedazione. Ed è qui che scende in campo il team Tobia, che offre un servizio innovativo per garantire pari opportunità di accesso alla salute. Il gruppo, attualmente, è composto da 3 unità a tempo pieno: un coordinatore/case manager, e 2 persone dedicate al call center per il triage telefonico, e per l’accompagnamento negli specifici percorsi di diagnosi e cura. È affiancato inoltre da una “cabina di regia”, formata da 6 medici consulenti, per programmare l’intervento individualizzato più appropriato, laddove non ci sia già una specifica prestazione richiesta. La segnalazione dei casi al servizio avviene attraverso il call center, (06/58706099 – 346/2337741) dalle ore 8.30 alle 12.30, gli operatori sono dedicati ad un primo “triage telefonico”, con la raccolta dei dati essenziali su una scheda, specificatamente elaborata. «Questa è una fase molto delicata e importante — aggiunge la dottoressa Orazi — perché è qui che si cerca di capire ed individuare il percorso da intraprendere». Fuori orario è possibile inviare un messaggio WhatsApp (scritto o vocale) al telefono cellulare: l’operatore avrà cura di richiamare la persona entro le 24 ore successive. Il team ospedaliero, in base ai dati acquisiti, elabora il piano di intervento individualizzato, contatta i diversi servizi dell’ospedale verificando la disponibilità di strutture ed operatori, coinvolge le figure professionali che sono necessarie alla messa in atto delle procedure diagnostiche e/o clinico-assistenziali, individua la data della specifica prestazione o del Day hospital (Dh), comunica all’utente, ai suoi familiari o allo specifico care giver, la data di accesso per la specifica prestazione o per il Dh. Nel giorno in cui vengono eseguiti gli interventi, l’équipe segue e supporta gli operatori ospedalieri durante tutte le fasi del percorso diagnostico. Successivamente, laddove richiesto, comunica i referti degli esami eseguiti e li trasmette all’utente (o eventualmente al care giver debitamente autorizzato).

Tobia, in sostanza, oltre ad avere lo scopo di soddisfare il bisogno di salute delle persone con gravi disabilità intellettive attraverso percorsi diagnostici e clinico-assistenziali individuali e facilitati, ha la pretesa di evitare di ricorrere al Pronto Soccorso. «La capacità di fare squadra — sottolinea Stefano Capparucci — ci ha permesso di aiutare tantissime situazioni che non avevano incontrato risposte puntuali e valide dal Sistema sanitario nazionale. I disturbi dello spettro autistico, per esempio, sono ad oggi diagnosticati precocemente, ma abbiamo verificato un’inquietante realtà: il servizio sanitario nazionale troppo spesso non è in grado di dare risposte appropriate a persone affette da questo tipo di disturbi». Per questa ragione è nato il progetto Tobia con l’auspicio che anche altre strutture ospedaliere possano dotarsi dello stesso servizio e fare rete. «Questo è molto importante — conclude il nostro interlocutore — in questo modo si potranno curare e seguire sempre più pazienti da casa o dalle strutture nelle quali sono ospitati. Facilitare l’accesso alle cure ad una persona con grave disabilità è fondamentale anche per farla rimanere in casa, senza dover finire in una “struttura”. Questo tragico periodo della pandemia ci ha insegnato che curare in casa, e aiutare genitori spesso anziani a sognare per i propri figli con disabilità un futuro in casa propria, è un diritto esigibile alla vita, e ad una vita degna».

di Francesco Ricupero