L’antica leggenda di Rufo (e delle cicogne arrabbiate)

Troppo povero
per una colonna

Veduta panoramica della Grande Chartreuse in Francia
25 maggio 2021

Il bosco e il deserto hanno in comune assai poco. Nella «forma esteriore», quasi nulla: riboccante il primo, vacante il secondo. Due polarità: il pieno e il vuoto. Da una parte, un intrico spontaneo, fitto di fronde, folto di peli, arruffato di una ferinità selvaggia; dall’altra, il fascino ruvido delle sabbie e delle pietre, il brulicame serpentiforme, ignudo delle sue creature. Eppure, fuori dell’inventario rigoroso delle scienze geografiche e territoriali, e dentro invece il catalogo esistenziale, affettivo e spirituale, bosco e deserto sono concetti contigui, potremmo dire quasi equivalenti: si oppongono rigorosamente, entrambi, allo spazio umanizzato e organizzato della «Civiltà urbana», sia essa contadina, sia essa industriale, sia essa post-industriale. Qui la ragione ha potuto poco, per questo gli uomini ne hanno sempre provato spavento o fascino.

In alcuni antichi poeti e mistici arabi, il deserto è un motivo ricorrente per significare il locus horridus, il no man’s land, l’ignoto, lo smarrimento, la brutale assenza di norme comuni, esattamente come lo è il bosco nella nostra poesia e nella nostra letteratura: pensiamo alle selve e alle foreste incantate ove si smarriscono gli eroi di Dante, Ariosto, Calvino o al bosco di Le Mans, ove vagabonda «Berta dai grandi piedi» e dove Carlo vi diventerà pazzo.

Ma tra deserto e bosco esistono almeno un altro paio di fils rouges. Uno ci conduce verso quella idealizzazione letteraria dei boschi e dei deserti che va da certi miti arturiani («Noi ritorniamo alla foresta che ci protegge e ci salva!» si legge nel mito di Tristano e Isotta), alla gaste forêt di Parceval, allo splendido realismo magico di Ibrahim al-Koni, che è riuscito a fare del Sahara un abbagliante locus amoenus. Un altro fil rouge ci conduce verso la perfetta equipollenza tra bosco e deserto nella narrazione, a volte autentica, a volte leggendaria, della fuga mundi: l’eremitismo cristiano orientale ha avuto anacoreti del deserto, esattamente come l’ascesi solitaria occidentale ha avuto santi, monaci, eremiti ed anacoreti del bosco. Potremmo dire che laddove l’Oriente, cristiano e mussulmano, ha avuto i suoi Padri del Deserto (Antonio il Grande, san Girolamo, Paolo di Tebe), l’Occidente ha avuto i suoi «Padri del Bosco»: san Bruno e i suoi compagni nella Grande Chartreuse, san Roberto di Molesmes e i suoi discepoli nel bosco di rose selvatiche di Citeaux, Eustachio il Monaco nei boschi del Boulonnais, sant’Uberto nei boschi dell’Austrasia. Quest’ultimo pare che abbia ricevuto una visione del crocifisso tra le corna d’un cervo, durante una battuta di caccia; mentre san Teobaldo di Provins, dopo aver letto in giovane età le biografie dei Padri del Deserto, ne rimane talmente affascinato da rinunciare alle ricchezze dei genitori, conti dello Champagne, per dedicarsi alla vita contemplativa nei boschi di Pettingen, insieme al suo fedele scudiero di nome Gualtiero.

Se diamo un’occhiata alle antologie dei cosiddetti Pateriká, che raccolgono detti e sapienza delle Amma (Madri) e degli Abba (Padri) che «portano la loro ombra magra alle rocce del deserto» — dalla Vitae Patrum, alla Storia lausiaca, alla celeberrima Vita di Antonio — scopriamo che gli incipit si somigliano un po’ tutti: «Il beato Macario trascorse quasi tutta la sua lunga vita nel deserto»; «Quando Nilo decise di abbandonare il mondo per rifugiarsi nel deserto», «Un giorno, cavalcando nel deserto della Tebaide». A loro volta, molti Pateriká e molte agiografie dell’Occidente cristiano — dalle leggende bretoni agli Acta Sanctorum — cominciano con espressioni di questo tipo: «Nei boschi di Bretagna, molti secoli fa, vivevano molti anacoreti», «Severo (…) decise di tornare nelle foreste della Normandia, dove era nato, per fare l’eremita».

E così come i deliziosi quadretti degli apoftegmi pullulano di demonietti, bestie e mostriciattoli del deserto, obbedienti all’ingiunzione del santo, le leggende auree del bosco hanno, a loro volta, un nutrito bestiario disposto a rabbonire: il più celebre di tutti, il lupo di Gubbio, non ha bisogno di presentazioni. Meno noti sono invece la Tarasca, vinta da santa Marta con l’acquasantiera e l’aspersorio; l’orso di san Romedio e il più illustre orso di san Corbiniano (entrato addirittura nell’araldica pontificia), entrambi ammansiti e sellati dopo aver sbranato i cavalli dei santi; le cicogne di Rufo stilita, in un’antica leggenda (stavolta orientale), ma di ambientazione al quanto forastica.

Quest’ultima leggenda, tanto affascinante quanto sconosciuta, è, come si suole dire, «all’altezza della chiosa». Un certo Rufo, di cui sappiamo assai poco, decide, sull’esempio di san Simeone, di farsi stilita, di passare cioè tutta la vita in cima ad una colonna, nel silenzio e nella preghiera. Ma, a causa della grande santità che regna a quel tempo, le colonne libere sono introvabili e Rufo è troppo povero per farsene costruire una. Un giorno, ai margini di un bosco, vede un trespolo con una enorme ruota di legno, su cui è poggiato un pagliericcio. Decide che quella sarà la sua colonna. Sale fin lassù e comincia a contemplare le cose del cielo.

In autunno, tuttavia, arrivano, dal freddo dei Paesi nordici, due cicogne assai prepotenti. Vedendo che il loro nido è occupato, si avventano su Rufo con grida e colpi di becco. Lo stilita parla loro con profonda dolcezza e le invita a seguire il messaggio fraterno di Cristo. Le cicogne, sorprese dalla dolcezza di Rufo e dalla Buona Novella, cominciano a grattargli la testa coi becchi e decidono di dividere il nido tutti assieme. Quando piove, ci racconta la leggenda, Rufo le copre col suo mantello; quando Rufo ha fame e freddo, le cicogne gli procurano nuova paglia e qualche frutto saporito. Un giorno che Rufo si duole di non essere più riuscito a fare la Santa Comunione, non avendo preti alla portata, le cicogne volano fino a Roma e tornano, dopo qualche giorno, con un’ostia nel becco, benedetta niente meno che dal Papa.

di Roberto Rosano