Myanmar: un Paese lacerato

People protest in Mandalay, Myanmar in this picture obtained from social media dated May 16, 2021. ...
25 maggio 2021

Non c’è pace nel regno delle donne-giraffa. Nel Myanmar orientale, al confine con la Thailandia, laddove i missionari del Pime oltre cento anni fa hanno piantato il seme del Vangelo tra popoli di secolari tradizioni animiste — come quella delle donne che, fin da piccole, indossano pesanti anelli che allungano il collo — violenza e dolore hanno reso la pace un ricordo lontano. Nell’area che è identificata come lo Stato birmano di Kayah, bombardamenti, brutalità, presenza di sfollati interni configurano oggi un principio di guerra civile. Fino a ieri modello di rapporto pacifico tra il governo centrale e gli Stati delle minoranze etniche che compongono l’Unione birmana, la regione del Kayah dopo il colpo di Stato del primo febbraio ha cambiato volto. In oltre tre mesi di protesta pacifica, diffusa in tutta la nazione, il movimento di disobbedienza civile ha cercato di paralizzare le istituzioni statali, ma la repressione dei militari, con arresti e uccisioni dei giovani manifestanti, si è fatta sempre più dura. E in Kayah, considerato per la forte presenza di battezzati la roccaforte cristiana del Myanmar (quasi un terzo dei 350 mila abitanti professa la fede in Gesù), è iniziata una resistenza armata che sta lacerando il tessuto sociale, caratterizzato da diverse etnie. L’esercito regolare ha allora schierato l’artiglieria pesante, in una escalation che mira a soffocare sul nascere ogni reazione popolare.

La notte scorsa militari birmani hanno colpito con proiettili di mortaio l’area di Loikaw, capitale dello Stato, prendendo di mira tre villaggi, senza risparmiare la chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù, piena di sfollati che vi avevano trovato rifugio. Il bombardamento ha fatto quattro vittime e diversi feriti, danneggiando pesantemente l’edificio sacro.

Paul Tinreh, 42enne sacerdote, coordinatore pastorale della diocesi cattolica di Loikaw, spiega con amarezza e preoccupazione a «L’Osservatore Romano» che «l’esercito ha terrorizzato la gente, ha usato ogni violenza e abuso sui civili indifesi. La popolazione ha vissuto settimane di intensa sofferenza e paura. Donne, bambini e anziani si sono rifugiati anche nelle chiese. Vi sono oltre cinquemila sfollati interni nello stato, fuggiti nei boschi o venuti a cercare protezione. Cerchiamo di accoglierli e di nutrirli». In questo scenario, prosegue il parroco, «la gente, allo stremo delle forze e provata dalla violenza, ha avviato come ultima ratio la resistenza anche con le armi, con l’intento precipuo di proteggere donne, bambini e anziani. È una reazione di autodifesa e di legittima difesa di fronte a un potere repressivo e non più riconosciuto. I cristiani, che hanno sempre scelto la via della non violenza, si trovano nella condizione di dover difendere la propria vita e quella dei loro cari. È un diritto proteggere i più deboli e vulnerabili, uccisi indiscriminatamente».

Fonti locali confermano che i militari, sempre più numerosi nello Stato Kayah, usano carri armati, elicotteri e attacchi di mortaio. «Nessun posto è sicuro e la guerra è arrivata in città. Dato che le forze del regime birmano arrestano e uccidono arbitrariamente civili innocenti, non c’è altra opzione per il popolo se non quella di difendersi con qualsiasi mezzo», hanno notato i gesuiti del Myanmar, spiegando le ragioni per cui la popolazione ha creato le “Forze popolari di difesa” che, in tutto il Paese, si oppongono alla violenza del “Tatmadaw”, come è chiamato l’esercito regolare birmano.

Paul Tinreh rileva un aspetto positivo: «Questa sofferenza ha generato unità tra la popolazione di etnia bamar, maggioritaria in Myanmar, e le minoranze etniche, da decenni in aperto conflitto col governo centrale. La riconciliazione nazionale non è un miraggio». È quanto auspica anche il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, che nella messa di domenica scorsa ha detto ai fedeli: «Parliamo la lingua dell’unità in Myanmar: non la disunità di Babele ma l’unità della Pentecoste», lanciando un accorato appello all’armonia e alla pace da cui, ha detto, può sgorgare la democrazia.

di Paolo Affatato